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VAI E VIVRAI regia di Radu Mihaileanu

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Invia una mail all'autore del commento jane eyre     6½ / 10  22/11/2005 12:11:29Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Voto reale: 6.5
Fattura, coerenza, organicità stilistica e di temi : 5/6
Partecipazione emotiva, tema legato all’identità culturale: 7

Il titolo originale del film – “vai, vivi, diventa” riesce forse ad esprimere meglio l’essenza significativa di quest’opera, dove, con licenza poetica, il verbo “diventare” viene assunto qui in forma intransitiva, volutamente tralasciando qualsiasi nome o sostantivo necessario ad inverare la natura incompiuta e “zoppicante” del verbo stesso.
In genere si diventa sempre qualcosa: si “diventa grandi”, si “diventa re”, si “diventa buoni/cattivi/belli/brutti”… qui invece il dramma si concentra totalmente attorno a questo anomalo “diventa”, lasciato volutamente in sospeso, a sancire forse la reale condizione esistenziale dell’uomo (al di là dello specifico caso dei falasha etiopi) la quale necessita a tutti costi di trovare una propria forma attraverso la costruzione di un’identità, culturale, religiosa o politica che sia, in quanto l’uomo è l’unico “animale” a non averne una determinata apriori.
L’uomo, dai tempi in cui ha imparato a percepire se stesso come qualcosa di altro rispetto alle restanti “creature del creato” non ha fatto che modellare continuamente se stesso attraverso la codificazione di miti e storie atte a giustificare la propria esistenza, funzionali a determinare ciò che per sua (mancanza di) natura è indeterminato.
Il dramma del film forse emerge proprio nel constatare come sia difficile preservare la propria identità nonostante la codificazione di modus vivendi secolari.
I falasha, additati nel loro paese d’origine per la loro diversità di ebrei, scopriranno poi, ancor più drammaticamente, una volta giunti in Israele, come sia diffcile definire “l’identità”, condizione questa “non data” ma magmatica anch’essa, da rinegoziare sempre di volta in volta e quindi non così rassicurante come si potrebbe all’apparenza credere. Saranno infatti proprio quegli ebrei di gerusalemme, che accolsero i fratelli neri più sfortunati nella loro terra, a disconoscerne l’identità ebraica, in quanto profondamente diversi per modi e per usanze.
È venendo meno la possibilità di riconoscersi in qualcosa di funzionale a rassicurare l’essere umano nella sua identità (la religione) che l’uomo si scopre inerme, e ciò che credeva sino a poco prima “naturale” si rivela essere niente altro che creazione-invenzione culturale e costruzione del sé.
Il piccolo Schlomo, in quanto cristiano, creduto però ebreo dalla comunità da cui verrà accolto, sarà costretto a re-inventare la sua “ebraicità”, dovrà, di volta in volta, sudarla, conquistarla, e scoprirà che soltanto reiterpretandola dentro se stesso potrà integrarsi nella nuova realtà senza però tradire completamente il vecchio sé culturale.
E la scena centrale della disputa teologica sulla natura di Dio illustra chiaramente come nulla, nemmeno ciò che è creduto come la cosa più sacra e immutabile (la religione) è immune ai cambiamenti, all’instabilità e alla sua natura di cosa mortale che in quanto tale “diviene” (e qui ritorna sottotraccia il concetto centrale del film del diventare-divenire), ed è suscettibile di interpretazione, nell’instabilità di tutte le cose umane, e di un ebraismo rivelantesi agli occhi del ragazzo non più essenza ma umana interpretazione, grazie alla quale egli potrà incorporare l’estraneo dentro se stesso.

È un film intelligente sulla lotta per conquistare un’identità, dove l’idea stessa che possa esisterne una data una volta per tutte è messo sottilmente in discussione.

Ma il film non convince pienamente nel suo modo di avvicinarsi a temi così delicati: la scena della disputa sulla torah mi è sembrata alquanto sensazionalistica, già vista” e scontata, così come è scontata la storia d’amore tra Schlomo e quella capricciosissima ragazza. La scena del walkman è tremenda: sembrava di assistere ad un remake del tempo delle mele!!!
Penso che chi esperisce sulla propria pelle il dramma del rifiuto, il travaglio di un’identità perduta e la sofferenza di un segreto custodito per anni non possa placidamente vivere una relazione amorosa basata sulla “normalità” più totale. Manca tra i due l’intesa nel/del dolore, la condivisione tacita di qualcosa di inesprimibile e che invisibilmente accomuna chi soffre...insomma, questo film tende per certi versi ad appiattire le diversità umane sui modelli stereotipati della fiction che non cesella le individualità, ma forgia immagini di uomini e donne piuttosto prevedibili. Ben riuscito è il personaggio della madre adottiva e dello scrivano.
Tanti i temi, troppa carne al fuoco, uno sviluppo non sempre chiaro e un finale rabberciato raggiunto troppo “facilmente” e fore un po’ favolistico. Soprattutto molti rapporti erano poco chiari: il nonno adottivo di Schlomo (l’inventore dei kibutz), alla fin fine, cosa ha dato al ragazzo? Che funzione ha all’interno della storia?

Film privo di quell’humor hyddish che contraddistingueva invece il precedente e più europeo “train de vie”, ma che forse, a causa di un tema così attuale e delicato, viene volutamente lasciato al margine.
Lo stile spesso è sciatto (a volte scialbo) e siccome a mio parere non esiste contenuto che non sia esso stesso forma, trovo che il contenuto stesso, a causa di questa discontinuità stilistica, ne risenta parecchio. Il tema stesso dell’identità (che ho elogiato sopra) tende poi ad annacquarsi verso la fine dando spazio a troppe cose tutte assieme.
Si poteva fare meglio, comunque rimane sempre un film interessante.