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GANGS OF NEW YORK regia di Martin Scorsese

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kafka62     8½ / 10  25/03/2018 17:42:39Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Barbarici cavalieri dalla faccia feroce, rozzamente vestiti e armati di asce e coltelli, escono letteralmente dalle viscere della terra, attraversando claustrofobiche catacombe e fiammeggianti fucine, per affrontare il nemico alla luce del sole: ecco come, con un ardito anacronismo visivo, Martin Scorsese immagina i "Conigli morti", una delle bande che si contendono il predominio di New York. E' il 1846, ma sembra di essere dentro a un film come "Conan il barbaro". E la battaglia successiva, cruenta, parossistica, eccessiva, quasi insostenibile nel suo furore visionario assecondato da un montaggio frenetico, rimanda più all'incipit de "Il gladiatore" che ai tanti regolamenti di conti tra gangs rivali cui il regista ci aveva abituati. Evidentemente sta molto a cuore a Scorsese risalire indietro nel tempo per verificare quali sono le origini nascoste (e ignote alla maggior parte dei suoi contemporanei) del mito americano. Già lo aveva fatto, in parte, con l'elegante e raffinato "L'età dell'innocenza", da Edith Wharthon; qui la sua operazione diventa addirittura filologica, laddove giunge a ricostruire negli studi di Cinecittà una New York che "non era una città, ma una fornace", caotica, debordante, tumultuosa, fatiscente e stracciona, dove l'ordine pubblico stenta a imporsi e l'iniziativa individuale è violenta e anarcoide, quasi una trasposizione del far west in versione metropolitana.
Se "Gangs of New York" è prima di tutto la storia del giovane Amsterdam, il quale vuole vendicare la morte del padre uccidendo il crudele capo dei "nativi", Bill il macellaio (storia che segue una struttura molto classica, all'inizio un po' racconto di formazione - il ragazzo che cerca di farsi strada in un mondo che non ammette debolezze e non conosce pietà - e successivamente vicenda avventurosa di amore e di morte fino all'epilogo sanguinoso e catartico, con un climax riconoscibilissimo per averlo visto in tanti film hollywoodiani, e a cui non è estraneo il fascino divistico di un Di Caprio che sembra appena uscito dal "Titanic" di Cameron), se il film, dicevo, è indubbiamente questo, esso è anche un excursus storico non banale, che attraversa episodi chiave della storia degli Stati Uniti, come la Guerra Civile, l'abolizione della schiavitù e la massiccia immigrazione europea. La storia con la esse minuscola (quella di Amsterdam e Bill) si intreccia quindi con la Storia con la esse maiuscola: così quando il nostro eroe si reca nottetempo a rubare sulle navi ormeggiate nel porto davanti ai nostri occhi si stendono, lugubremente allineate sulla banchina, innumerevoli bare contenenti le spoglie dei soldati morti nella guerra contro il Sud; e quando irlandesi e nativi si accingono alla fatidica sfida all'ultimo sangue, le loro immagini vengono contrappuntate con quelle della rivolta dei cittadini contro le odiose liste di coscrizione (ma anche, pretestuosamente, contro i negri e i cittadini benestanti), repressa sanguinosamente dall'intervento dell'esercito. Quello che avevano tentato con risultati diseguali molti registi del passato (ad esempio, Leone, Peckinpah e Huston), Scorsese riesce a realizzarlo, questa volta senza il ricorso al mito del west e della frontiera ma rimanendo pervicacemente fedele alla sua amata New York, in maniera cinematograficamente mirabile ed eccelsa: raccontare cioè di quali lacrime e sangue grondi quella che da molti è considerata la democrazia più evoluta del mondo. E questa tesi provocatoriamente attualizzante, che cioè gli Stati Uniti d'America di oggi siano nati "dal sangue e dalla tribolazione" di ieri (come udiamo dalla voce di Amsterdam in chiusura di film), viene resa visivamente evidente dalla stupefacente metamorfosi con la quale, mediante la successione di poche e rapide sovrimpressioni, la New York di metà Ottocento si trasforma nella New York dei grattacieli dei nostri giorni.
Le ambizioni storiografiche di cui ho parlato hanno reso necessario un grande scrupolo documentario: dalle fatiscenti costruzioni in legno formicolanti di persone e dai labirintici sotterranei che costituiscono l'inedita ambientazione da suburra del film, fino ad arrivare alle unghie sporche dell'affascinante Cameron Diaz, "Gangs of New York" è un kolossal di un perfezionismo quasi maniacale, frutto della collaborazione di una affiatatissima squadra di scenografi, costumisti e tecnici. La pellicola tuttavia resta inconfondibilmente scorsesiana, nel senso che il regista americano vi inietta la sua consueta vena epica, immaginifica e manichea. I personaggi sono talmente eccessivi e sopra le righe, e gli scontri fisici così tonitruanti, sadici e violenti, da dare al film una connotazione chiaramente mitica ed eroica. Realismo scenografico e antirealismo stilistico si alternano così in continuazione, dando al film un andamento curiosamente atipico e singolare, con inattesi cambi di ritmo, montaggio di inquadrature subliminali, sovrimpressioni sorprendenti e altrettanto spettacolari carrelli e gru. Le tre ore di durata trascorrono in tal modo senza tempi morti e senza risparmio di colpi di scena, con un ritmo avvincente e incalzante ed un respiro narrativo che non è esagerato definire leggendario, e che comunque è più sufficiente per parlare di "Gangs of New York" come una delle pagine più belle del cinema contemporaneo.