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C'ERA UNA VOLTA A... HOLLYWOOD regia di Quentin Tarantino

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Invia una mail all'autore del commento kowalsky     9 / 10  13/10/2019 11:01:15Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Sono assolutamente convinto che, a livello di script, questo sia il Capolavoro di Tarantino, e non ha nulla da invidiare a testi come "Il giorno della Locusta" di Nathanel West o "Il parco dei cervi" di Norman Mailer. Ritengo che poca gente abbia colto che, attraverso il glamour di una Hollywood all'epoca tutt'altro che in vetta e al di là del glamour e dei partes a Palm Spring e Bel Air, il film sia "sospeso" da un climax quasi diabolico, da un'atmosfera sinistra, da una certa inquietudine che pochi hanno colto, e non capisco il perché. Manifesto di un decennio di flower Power e rock and roll, di celebrità costrette a emigrare in Europa per ritrovare la fama perduta, di Innocenza tramutata in lecita colpevolezza. Il film di Tarantino, pur fagicitando un puzzle dove mette insieme il potere intrinseco della televisione, la fama diffusa come il Merchandising delle rockstar, gli anni bui di una Hollywood che si compiace e contorce su sé stessa, è uno splendido ritratto di un'Innocenza perduta per sempre, di una grande Guerra (im) morale che vivrà il mondo intero nel successivo decennio e oltre. Un film che ubriaca di citazioni, e poteva essere altrimenti? Godibilissime ed evidenti quelle a Sergio Corbucci ("Navajo Joe") o Leone, ma anche quella, sorprendente, che richiama Altman e il suo "Lungo addio", e volendo poi ognuno ci trova i legami che ci vuole. L'attore tv in crisi potrebbe essere David Carradine, approdato al cinema dopo la fama televisiva, oppure il primo Clint, o magari Arthur Kennedy e Richard Conte, Lee Van Cleef o Jack Palance. Il "moglicida" fa pensare a Gig Young o forse al più recente "caso" di Robert Blake. Non lo sappiamo, ma sappiamo che Tarantino vuole riscrivere la (sua) Storia. Le attese vengono tradite dalla sua personale Visione al punto che non sai mai se sia in buona fede o abbia usato questo escamotage per privare il Cinema di una libertà "scomoda" usando un epilogo geniale da parodia horror oppure deplorevolemente "purgato" dal suo codice Hays. Resta il fatto che il "polacco che prima o poi farà una *******" la dice lunga sui conflitti interni e privati che ancora minano la fama del regista di "Rosemary's baby" in America. Tarantino è tuttavia sempre straordinario quando tributa (Di Caprio al posto di McQueen) film come "La grande fuga", cita Jack Arnold, esibisce una frattura esterna con un mondo Evoluto che è destinato a involversi, come quello della musica e della cultura flower Power. Ama immaginare Sharon Tate comprare "Tess" per il marito nella speranza che un giorno sarà Lei l'eroina di un Film e non, come abbiamo visto tutti, Nastassja Kinsky. Ricco di scene memorabili, su tutte proprio la Tate che assiste a una proiezione dove recita "Matt Helm" con Dean Martin, e vede i manifesti dei suoi film, come "Piano piano non t'agitare" o "La valle delle bambole". La Tate è raccontata con una sensibilità e un rispetto che lascia piacevolmente sorpresi. I suoi occhi vedono un mondo che si apre attorno a lei, anche se tutti ascoltano Paul Revere e Feliciano invece dei Jefferson Airplane Hendrix o Otis Redding. Certo non mancano difetti: aver ridotto Bruce Lee, che stava girando un cameo nell'"Investigatore Marlowe", a una specie di macchietta. Il suo essere Con e Contro Hollywood facendo dell'industria un set dove convivono stanchi cowboy stuntmen acidi e Coca-Cola.
Ma, ripeto, tutto il film è di una bellezza che lascia esterrefatti, con il prevedibile e atteso colpo iconoclasta brutale e ribaltato dell'epilogo, dove vincono i Vinti, come ha gia' sperimentato in "Bastardi senza gloria". Memorabili i camei di Madsen ma soprattutto di Bruce Dern. Chiuso tra le note di "You can't keep hanging on" dei Vanilla Fudge "C'era una volta a Hollywood" riconcilia con il Grande Cinema, diventando un'appassionata corsa verso una sfrenata vitalità destinata a estinguersi. O più semplicemente a cambiare identità