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NEL CORSO DEL TEMPO regia di Wim Wenders

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Terry Malloy     9½ / 10  28/08/2013 19:11:36Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Citato da tutti i manuali di cinema per descrivere un concetto di sceneggiatura "work in progress", che segue la storia passo passo, si forma con lei, nasce ogni giorno dal lavoro sul campo, on the move. Questo è un road-movie atipico, poiché non è solo la storia a svilupparsi lungo i tornanti della Germania, ma anche lo stesso making of.
Il cinema è un'arte (nel senso greco del termine) molto particolare perché ha sempre sfruttato, dalla Nouvelle Vague in poi specialmente, oggetti reali, ossia appartenenti al mondo reale. È un'arte che si è sempre fatta all'interno del mondo, con la casualità che ne deriva. Non stupisce che le pagine di sceneggiatura di questo film sono poco più che la scena dell'incontro tra i due protagonisti. Nel mondo reale, chi può dire cosa accadrà? Wim Wenders aveva ben chiaro cosa mostrare, egli stesso è stato protagonista di un suo viaggio-film, di un documentario di ciò che avrebbe mostrato poi, sulle soglie degli anni '80, in questo piccolo capolavoro. E la storia stessa è quasi un'autobiografia: vediamo i luoghi dell'infanzia di Wenders, ascoltiamo la sua musica, vediamo i suoi tesori dell'infanzia (nella scena in cui King of the Road trova i suoi), vediamo la sua vita, attraverso il cinema. Si può dire che Im Lauf sia il suo 8 1/2. Ma Wenders non voleva fare semplicemente questo. Voleva anche omaggiare un'intera storia culturale. Una storia culturale che lega intimamente due paesi simbolo di uno scontro mondiale che ha portato la civiltà occidentale sul crinale dell'annullamento. Germania e America. L'America – da sempre musa ispiratrice di Wenders, e aggiungerei, di tutti noi – fa da sfondo immaginario, fa da paradigma per tutto lo svolgimento del film. Wenders dice che spesso i paesaggi del film si confondono con quelli del West statunitense, specialmente se qualcuno li vuole vedere così: ecco, qui passa una dichiarazione di poetica. Wenders sembra mostrarci la Germania, ma in realtà fa molte cose in più, semplicemente sfumandole in un tutt'uno che rende arte ciò che parrebbe solo una mera riproduzione realistica. I contatti con l'America stanno nelle memorie cinematografiche, Nicolas Ray, Sentieri Selvaggi, Easy Rider, oppure in quelle musicali, Rolling Stones e Bob Dylan, o anche in quelle letterarie, non a caso Faulkner. Ma soprattutto nel capolavoro del postmoderno americano, le fotografie di Walker Evans, che fanno da matrice visiva per le locations di questo film. Non serve che ce lo dica Wenders che i luoghi fanno il film, sono quelli che raccontano questa storia. È evidente, com'è evidente che l'interesse per i personaggi, la loro psicologia, la loro storia, le loro azioni sono semplicemente un fatto da narrare tra gli altri. A Wim Wenders interessa tutto ciò che è soggetto allo scorrere del tempo, un tempo che sta facendo, in sordina, un sacco di danni. Eppure il cinema di questo grande cineasta tedesco sembra suggerirci, e lo dirà anche Bruno in un dialogo indimenticabile (benché WW non sia un grande sceneggiatore, a suo stesso dire), che il tempo riesca a "tranquillizzarci". In effetti, non sembrano soffrire di un disagio particolare questi due viaggiatori, anche quando espressamente ci raccontano dei loro demoni. La strada, la solitudine, la casualità della vita sembrano cullarli, in tutto ciò che è memoria. Non da ultimo, il cinema, i cinema che chiudono, le testimonianze delle persone comuni, la cui vita è appena accennata, come dice la bigliettaia: "Vivo da sola con mia figlia, e mi va bene così". Rispetto a questo personaggi secondari, i primari ci rivelano poco altro. Non sappiamo davvero il perché Kamikaze telefoni continuamente. Ma dopo un po' non c'importa più. L'importante è continuare a vedere. La Germania, i cinema, i posti che non sfuggono agli occhi di un viaggiatore come Wenders. Ascoltarlo mentre, a distanza di anni, racconta, scena per scena, i dietro alle quinte del film è un'emozione grandissima. La voce calda e confidenziale, in lingua tedesca, che ci racconta cos'è successo in quei magnifici giorni d'avventura, che ci illustrano senza rendersene conto una diversa concezione del cinema, di un cinema prima vissuto e poi immaginato e poi ancora realizzato, le differenze con l'oggi, su stessa ammissione di un regista che ora non ripeterebbe l'esperienza, poiché non più "ingenuo". I tempi dove autore, produttore e regista coincidevano. Ma ora è troppo faticoso. "Ci siamo serviti di tutti i mezzi di trasporto usati in Germania". E così, la cura degli oggetti, delle parole della gente, le interviste a personaggi umili, le case fatte di lamiere ondulate, i ricordi fumettistici all'interno di una "pizza", contenitore per pellicole, con Wenders che si chiede divertito come potesse accadere realisticamente che un bambino ne possedesse una ("ma era l'unico contenitore che avevamo trovato"), il b/n "che permette di osservare i personaggi nel profondo", gli oggetti di scena che ritornano, come il libretto con le immagini di Wolfsburg ("certi oggetti di scena vivono di vita propria"), le improvvisate ed amatoriali tecniche di ripresa, con il binario di 10 m, un furgoncino spinto a mano per riprendere i due durante una corsa per permettere di sentire i dialoghi, lo stesso caravan immatricolato a Monaco con l'omino Michelin che troneggia a mo' di polena, caravan con cui si presentarono, da veri hippies, a Cannes e si cercò di non farli entrare, complice anche la celeberrima scena della cacca. Wenders definisce Im Lauf un film che "parla di un proiezionista". Ed è vero. Le tappe di questo anomalo road-movie, anomalo perché in fin dei conti non è un giro a caso, come era quello di Kerouac, ma una serie di villaggi in cui proiettare film, un tour, una tournée, tantoché in una delle loro separazioni Kamikaze dirà: "conosco il giro che fai" – le tappe di questo road-movie sono cinema sparuti, dispersi, dimenticati, vuoti, o già chiusi, o perseguitati, o latori di pessime immagini (indimenticabili quelle tre sequenze montate per la ragazza da King of the Road – brani di film che Wenders definisce "rappresentativi del cinema anni '70"), e in una scena si avrà addirittura un omaggio alla Croce di Malta, il marchingegno che garantisce la proiezione. Il tutto sotto lo sguardo di Robert Mitchum, una delle tante immagini di attori e registi (Lang alla fine, con la benda da pirata) che punteggiano i muri degli interni di tutto il film. Eppure questa rappresentazione realistica, e quasi direi civile, impegnata, seria, non sembra tale. Tutto è storia, tutto è racconto. Wenders è un raffinato autore postmoderno, che ha sfruttato stilemi e generi del cinema classico, per raccontare cose che di classico non avevano nulla. L'utilizzo delle dissolvenze, quasi didascalico, la scelta stessa della colonna sonora, il rock da strada, e del genere, il road-movie, che altro non è, secondo la stessa interpretazione del regista, che la versione moderna del western, dove la diligenza, il cavallo, sono sostituiti dal camioncino. Wenders ci ha regalato un film che idealisticamente chiude non solo gli anni '70, ma anche un intero pezzo di cinematografia. Un autore europeo che sapeva confrontarsi dialetticamente con il cinema più importante, quello americano, e non solo con il cinema, ma con un'intera cultura e un'intera storia.
"Con poche persone si può comunque fare cinema"

WW – END