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ANATOMIA DI UN RAPIMENTO regia di Akira Kurosawa

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amterme63     8 / 10  15/05/2010 15:16:07Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Ecco un altro film che magari non entusiasma dopo la visione ma che poi lascia uno strascico di pensieri, interrogativi che piano piano scavano dentro e spingono a ripensare e riconsiderare tutto quello che si è visto.
Mi sono accorto che i grandi registi sono come ossessionati da alcune tematiche e le loro opere non sono altro che varianti, sviluppi di queste idee fondamentali. La loro arte consiste nel far affarire lo stesso tema ogni volta come qualcosa di nuovo e diverso. Ebbene, Kurosawa ci riesce alla grande.
Questo film appartiene apparentemente allo stesso gruppo di "I cattivi dormono in pace". I primi 40 minuti si svolgono tutti nella splendida villa di un rampante, giovane e ambizioso capitano d'industria in procinto di fare l'affare della vita. Un "contrattempo" lo porrà di fronte a grandi responsabilità etiche. Noi spettatori siamo chiamati a vedere, sentire e giudicare gli atti. Sono 40 minuti molto teatrali, la cinepresa non si muove dall'interno della villa, e questo contribuisce ad esaltare i conflitti interiori (veramente cruciali) del protagonista (un'altra grandissima interpretazione di Toshiro Mifune).
Poi all'improvviso il film cambia registro e adotta la stessa atmosfera di "Cane Randagio". Il protagonista diventa la "razionalità" umana, simboleggiata dall'equipe di poliziotti, i quali si mettono in maniera indefessa e certosina (molto giapponese!) a scandagliare tutti gli indizi, a battere gli ambienti più disparati (ecco apparire i bassifondi che non ti immagini nel ricco e florido Giappone) in un grande e faticoso sforzo (Kurosawa poi è un maestro nel rende visuale questa tenacia).
Come in "Cane randagio" questa ricerca è anche un tentativo di dare forma e spiegazione al male, al crimine e di conferirgli un volto, una vita umana. Sono riflessioni molto stimolanti. Ecco apparire quindi il "criminale" che diventa così il protagonista degli ultimi minuti del film. La sua è la figura di uno studente di medicina povero e introverso che accumula odio e astio violento verso chi "sta in alto", in maniera astratta e ideologica. Kurosawa riesce a darci un ritratto anticipatore dei futuri rivoluzionari sessantottini. L'accento anche qui va però, più che sulle idee, sul sentimento umano, anche drammatico e lacerante, che ci sta dietro.
Il finale veramente lascia colpiti e anche un po' sconvolti. Come Mifune rimaniamo anche noi lì interdetti e basiti, a fissare una barriera chiusa che per un attimo ci ha mostrato un aspetto inquietante e infernale dell'animo umano.
Kurosawa, un po' come tutti i grandi artisti-intellettuali del XX secolo, appartiene al "partito" della razionalità, che è affascinato dal "male", dall'irrazionale, dal violento, dal distruttivo, ma che tenta di conoscerlo, ritrarlo, scandagliarlo, in fondo per esorcizzarlo.
L'attuale secolo sembra invece aver rinunciato a questa base di partenza e cerca di maneggiare il male, il criminale e il distruttivo in maniera diretta e non mediata.