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IL VENTO CI PORTERA' VIA regia di Abbas Kiarostami

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kafka62     5 / 10  10/02/2018 19:18:15Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Il cinema può fare a meno di una storia, può rinunciare a una struttura narrativa in grado di giustificare le esigenze estetiche dell'artista? La risposta di Kiarostami è: sì, può farlo. Il regista iraniano, che pure con Dov'è la casa del mio amico? Aveva fatto ricorso a un genere forte come quello della detection story, in questo film giunge là dove neppure Godard, Wenders o Assayas avevano osato arrivare: riesce cioè a cancellare, ad abolire la trama. Del protagonista non solo non veniamo a conoscere nulla del suo passato, del suo ambiente e del suo lavoro (questo in fondo è sempre stato relativamente frequente, basti pensare al western), ma neppure le motivazioni immediate dei suoi gesti e del suo comportamento. Perché l'"ingegnere" è arrivato in uno sperduto villaggio iraniano, perché si interessa alla salute di una vecchia centenaria, perché riceve dalla capitale continue telefonate (che lo costringono ad un incessante su e giù per la collina alla ricerca del punto di ascolto migliore, in questo ricordando l'andirivieni del piccolo protagonista del suo film d'esordio)? Non lo sappiamo e non lo sapremo con certezza neppure alla fine del film, così come non conosceremo mai i volti dei suoi compagni di viaggio e tante altre cose che, con una scelta alquanto opinabile, chiamano lo spettatore a riempire con la sua immaginazione ellissi e vuoti narrativi, addossandogli un compito cui, francamente, avrebbe fatto volentieri a meno.
Resta la ben nota maestria stilistica di Kiarostami, che da un volto e da un paesaggio riesce sempre a trarre inusitate sollecitazioni liriche e poetiche. Anche se qua e là c'è anche il tempo di preoccuparsi per la sorte di uno scavatore sepolto da una frana, di sorridere per una gaffe del protagonista (che non riconosce una donna con cui aveva parlato il giorno prima, perché allora era incinta mentre adesso, sgravata, lavora come se niente fosse successo) e di ascoltare con trepidazione una poesia recitata in una cantina semibuia a una ragazza che sta mungendo una capra, sono dell'avviso che sia il documentario e non già la fiction il genere cinematografico più idoneo a queste sperimentazioni per non disattendere troppo le legittime aspettative di uno spettatore normale.