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MUNICH regia di Steven Spielberg

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Invia una mail all'autore del commento kowalsky     8½ / 10  07/02/2006 03:26:55Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
"Forse tutta la saggezza, e tutta la verità, e tutta la sincerità, sono proprio condensate in quell'impercettibile frazione di tempo in cui oltrepassiamo la soglia dell'invisibile" (Conrad, "heart of darkness)

Questo è un passaporto per la storia. E probabilmente l'opera radicale che Spielberg inseguiva da diversi anni. Il suo cinema compie un lasso temporale e ideologico ben preciso, è come se dell'illusione eterea delle vecchie icone ((Incontri ravvicinati, Et, Indiana Jones, etc.) fosse passato alla speranza fagocitata che nel Male esiste un lume di faticosa salvezza (dal male stesso ovviamente). E Amistad, Salvate il soldato Ryan, Schindler's list appartengono a questa Ultima Illusione. Nessuno capirà l'importanza di un film discontinuo ma geniale come "la guerra dei mondi" se non avrà letto un'improvvisa amarezza per uno Spielberg che non era mai stato tanto "insolito e poco casuale".
Non è facile avvicinarsi a "Munich" senza scontare una regia abilissima che pero' osa destreggiarsi un po' troppo in territori consueti, in una fotografia patinata che sembra talvolta uscire dal proprio formalismo (Roma che non è Roma, le città abbellite dai propri "dannati" simboli, le luci squisitamente ridondanti di Beirut), il cui intreccio ricorda i polizieschi francesi degli anni Sessanta e Settanta (e uno si aspetta che esca da qualche parte il compianto Lino Ventura), ma anche la spettacolarizzazione della morte secondo i canoni di Scorsese e Coppola... altrettanto insindacabile è quel continuo riferimento ai valori familiari, cui Spielberg concede un ampio respiro, depurando il classico film "politico" del rigoroso didascalismo di un Costa Gavras, e operando percio' una sorta di rivalutazione del "nucleo" anche quando non appartiene ai codici affettivi prestabiliti.
Sono queste, forse, le critiche piu' severe che hanno esposto i vari giornalisti di cinema di fronte a questo film.
Nondimeno, al pubblico occorrerà tempo e riflessione continue per poter comprendere quanto questo film non predisponga affatto a una riconciliazione con la nostra coscienza. Anzi, rischia di esaurirla e riportarla verso quel senso di inquietudine e sgomento che ci prende ogni volta che conosciamo una parte intollerabile di noi stessi.
Se "per ogni civiltà arriva il giorno in cui è necessario scendere a compromessi con i nostri valori", nelle parole di Golda Meir, l'unica risposta plausibile è la convinzione che, se esiste un'altra via, ormai sembra impossibile da raggiungere.
Il film di Spielberg pone in rilievo l'eterno dilemma tra Rivoluzione (nelle parole di Marx: "la libera iniziativa provoca ingiustizia") e Terrorismo, sollecitando un confronto che via via diventa irritante, credibile, insopportabile, fastidioso, benefico, revanscista, orgoglioso, ingiusto, determinato,solenne, recidivo, amorale, glorioso, eroico,fallimentare.
E' probabilmente il "solo" film contemporaneo che necessita della "voce" dell'opposta fazione, magari in un'altra pellicola che sicuramente Spielberg non dirigerà.
L'aspetto affascinante di Munich è il contrasto radicale che si pone tra le opposte fazioni: tutto ha inizio nel segno di una (fatale) fratellanza olimpica, e subito dopo accade il dramma.
I telegiornali parlano di "prigionieri salvi" e poco dopo si smentisce clamorosamente.
Un senso ENORME di rispetto del dolore di tutti mostra la disperazione dei parenti degli ostaggi e subito dopo i familiari dei terroristi.
E le esecuzioni successive del commando israeliano, ehm nucleo, si inseriscono in un clima di fatalista tranquillità, tra gente che consuma gelati e coppie di amanti che, ignare, sfogano negli hotel i loro appetiti sessuali.
Il cinema di Spielberg giunge all'epilogo dell'imprevisto.
Efficace ma patinatissimo quando celebra gli anni settanta con un certo retrogusto un poco ammiccante, tutto camice a punta e locandine di film d'annata ("Trappola per un lupo" di Chabrol), persino fastidioso quando fa il giramondo nelle capitali europee e non con tanto di folklori locali, Spielberg è straordinario nel raccontare il "gruppo operativo", un nucleo dove convivono cinici disposti a tutto, deboli coscienziosi, utopisti plagiati dal bisogno di trovare la propria strada. Peccato solo per il doppiaggio, incapace di cogliere (come sarebbe stato in originale forse) le divergenze linguistiche, le tensioni razziali, la cultura israeliana.
Ed è un film fondamentale anche per altri motivi, ovviamente: i poteri forti del terrorismo, i legami con la Cia, nel riflesso dell'11 Settembre le cui verità non sono mai del tutto esibite ma che forse nessuno di noi arriverà a conoscere compiutamente.
Nel rapporto del protagonista con la propria madre, che gli dice "a qualsiasi costo, a qualsiasi prezzo, un posto sulla terra" e che pone Israele davanti al grande dilemma della sua storia passata e recente.
Nel fortissimo e teso dialogo con un terrorista di Amman, che sogna anch'egli la stessa cosa e che combatte per la stessa ragione ("Noi vogliamo essere una nazione").
E soprattutto nell'amarezza del ritorno a casa, cui un primo ministro negherà di far visita, dove Spielberg - dopo l'odiosa tesi simpatizzante per Bush (ai tempi di minority report) ammette quanto alla fine "eroi o vittime delle ragioni di una nazione finiscano dimenticati dalla stessa patria".

Infine, nelle deflagazioni, che sembrano uscite dallo sbarco in Normandia dei primi 30 min. del Soldato Ryan, ma che assumono le sembianze di una tregenda universale, come è stato quel giorno di sole (appunto, l'ennesimo contrasto) strappato alla follia e alla distruzione nei cieli di New York.