amterme63 9½ / 10 24/01/2015 22:52:02 » Rispondi Dopo aver esaltato ne "I 47 Ronin" lo spirito aristocratico, nobile e virtuoso del medioevo feudale giapponese, Mizoguchi ne fa un ritratto molto più duro e spietato in "Vita di Oharu". Cambia il punto di vista: se prima i protagonisti erano i nobili di corte, i samurai e tutto veniva visto e giudicato secondo il loro codice di comportamento (il senso dell'onore stabilito nel bushido); adesso il mondo viene visto dagli occhi sconcertati e addolorati della parte più debole, sfruttata e oppressa di quel mondo, cioè le donne del popolo. Cade così tutto il paravento fatto di lussi, onori, grandi princìpi morali, ecc. e appare invece un mondo duro, rapace, insensibile, crudele, sfruttatore: l'altra faccia del medioevo giapponese. Mai ho visto film che meglio di questo è riuscito a rappresentare la condizione di inferiorità e di sfruttamento a cui venivano sottoposte le donne in passato. E' un film quasi pedagogico da come presenta le vicende in maniera chiara e didascalica. L'intento morale di denuncia in questo film è però tutt'uno con la dolente e commovente umanità della protagonista. Più che una storia esemplare, il film è un omaggio ai dolori e al coraggio di una piccola grande donna del passato, una qualunque ma che vale per tutte. Sotto accusa è la società, le sue spietate leggi (si favorisce il potente a scapito del debole) e le sue spietate regole (tutto ruota intorno al denaro e al sesso). E' un meccanismo infernale che condiziona e cambia anche chi non vorrebbe farne parte (come la sfortunata Oharu). Prima di tutto deve fare i conti con l'ingiustizia delle barriere sociali (un samurai non può innamorarsi di una del popolo e deve essere ucciso), la disumanità dei nobili (viene usata per fare un figlio che poi le viene tolto), la grettezza e l'avidità di chi le sta attorno (addirittura il padre!). Nonostante cerchi di restare pura di cuore, la fame, la povertà la trascinano verso il basso; le circostanze la costringono a cedere a qualsiasi compromesso, a vendere la propria dignità. Insomma, anche lei sarà costretta a corrompersi per i soldi. In più deve subire l'umiliazione dei saccenti, dei perbenisti, che la indicano come il peccato, la feccia della società: oltre al danno, la beffa. Si capisce perfettamente, alla fine del lungo flashback su cui si basa il film, perchè Oharu si trascina disperata, stanca, rassegnata. Mai scena finale è stata così dolorosa nel rappresentare una sconfitta umana, ancora più vera e onesta perché senza alcun tipo di riparazione o consolazione fittizia. L'unico "omaggio" è quello che le fa il regista, riprendendola con l'enfasi, il rilievo e il pathos che in genere viene concesso all'"eroe". Almeno l'arte le rende giustizia. Film visivamente e stilisticamente molto bello, peccato per alcune lungaggini (dura forse troppo) e qualche momento di stanca. I cinefili non devono mancare la visione di questo film, per me il migliore di Mizoguchi visto fino a ora.