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LA STRADA DELLA VERGOGNA regia di Kenji Mizoguchi

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kafka62     6½ / 10  25/03/2018 17:03:49Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
"La strada della vergogna" esordisce secondo i modi cari al cinema-verità, vale a dire con una graduale messa a fuoco fenomenologia di una precisa realtà ambientale: dapprima una panoramica dall'alto di una grande città, quindi l'inquadratura di una strada qualunque, con i suoi edifici e le sue insegne, infine l'interno di una "casa da tè", dove i discorsi dei presenti vertono sulla proposta presentata alla Dieta giapponese di chiudere le case di tolleranza. I rimandi all'attualità sono amplificati poi dai continui commenti dei visitatori e dai notiziari della radio, ma l'atmosfera da inchiesta sociologica è in realtà solo apparente, perché il materiale narrativo è quanto di più tradizionale si possa immaginare. Il film è infatti la storia corale di un gruppo di donne che la cattiva sorte, il bisogno e le avversità della vita costringono a prostituirsi. Il tono è all'incirca quello di un racconto deamicisiano (c'è chi fa la vita per dare un avvenire al figlio, chi per comprare le medicine al marito malato), con frequenti cadute nel melodramma puro (il figlio scopre la madre che adesca i clienti, la ripudia e lei impazzisce per il dolore; la giovane prostituta viene sorpresa dall'odiato padre nel bordello e, per oltraggiarlo, gli si offre incestuosamente) e un intento programmaticamente didascalico (i personaggi femminili sono altrettanti casi-limite di degradazione e di dignità calpestata e offesa).
E' facile capire perché Mizoguchi si sia rivolto a questo soggetto per quello che, in conseguenza della sua morte prematura, è diventato il suo testamento cinematografico: nei suoi film la donna è sempre stata al centro dei suoi interessi e, sia nelle opere di ambientazione moderna sia nei più tradizionali jidai-geki, le sue cortigiane, le sue "donne galanti" e le sue concubine hanno simboleggiato una condizione femminile brutalizzata da una società fallocratica e irrisa nella sua ricerca di un impossibile riscatto. "La strada della vergogna" è una ennesima, accorata denuncia della violenza morale subita dalle donne (tanto più amara perché l'elemento negativo non è più un principe dispotico o un marito prepotente, e neppure gli uomini in genere, ma è la società nel suo complesso, e persino il padrone ipocritamente paternalista, il quale afferma che "la nostra è una vera e nobile azione sociale", è in fondo un anonimo ingranaggio di un sistema che lo trascende), e nel contempo è una sconsolata ammissione di impotenza (la conclusione è che al destino comune a tutte le donne si può sfuggire solo con l'astuzia e il soffocamento di ogni sentimento umano, come Yasumi, o con la follia, come Yumiko).
C'è nel film il consueto moralismo mizoguchiano, oltre a una affettuosa solidarietà verso i suoi sfortunati personaggi, soprattutto quando lasciano trapelare i loro sogni di donne normali (lo stesso sguardo che caratterizzerà, qualche anno più tardi, un film di Antonio Pietrangeli, "Adua e le sue compagne", anch'esso girato sulla spinta di un evento politico, l'approvazione della legge Merlin), ma "La strada della vergogna" convince meno di altre pellicole del maestro giapponese, forse perché l'aspetto figurativo viene questa volta subordinato all'intenzione pedagogica e all'organizzazione narrativa dei numerosi frammenti di vita che si intrecciano tra loro. Il miglior Mizoguchi lo si ritrova, a mio avviso, solo nella stupenda sequenza finale: la vestizione della prostituta bambina e il suo sguardo timido e spaurito nel momento in cui è costretta per la prima volta ad adescare i passanti valgono da soli a riscattare le ingenuità e gli schematismi del resto del film.