caratteri piccoli caratteri medi caratteri grandi Chiudi finestra

IL SOL DELL’AVVENIRE (2023) regia di Nanni Moretti

Nascondi tutte le risposte
Visualizza tutte le risposte
Fidelio89     9 / 10  02/05/2023 18:09:04Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Un metatesto ricco di spunti, stimoli, suggerimenti e rimandi alla storia cinema (Cassavetes, Kieslowski, Taviani), alla letteratura (Calvino, Pavese, in filigrana Pirandello), al Nanni Moretti sé stesso, ovvero l'uomo che volle farsi cinema. Ma è anche un complesso caleidoscopio che ancora sfugge a una precisa collocazione critica che possa permettere di fare emergere i suoi emeriti nella sua interezza. Ciò è dovuto al fatto di essere un film ancora uscito da poco e che nonostante l'elevata mole di approfondimenti critici e saggistici sta finendo col disorientare pure i suoi estimatori, nonostante il ritorno ad atmosfere più familiari rispetto al precedente e scombussolante "Tre piani".

L'operazione che Moretti fa con questo suo nuovo lavoro, che io non esito a definire capolavoro, nel suo senso più compiuto, è raffinatissima pur nella sua apparente chiarezza. Il modo in cui riesce a far compenetrare più piani narrativi con altrettante speculazioni che possono nascere in fieri durante la visione ha del miracoloso, pur certamente non estraneo a un certo meccanismo ermeneutico della decostruzione del post-modernismo.

Il film è un continuo farsi beffa dei detrattori mediante l'uso di topoi morettiani spinti fino al parossismo, a cominciare dalla recitazione provocatoria e volutamente antinaturalistica dello stesso regista che non fa nulla per apparire digeribile dal pubblico generalista e nemmeno fino in fondo dai suoi appassionati.

Si prenda la scena dell'interruzione del set del film violento. Chiunque l'avrebbe chiusa in due minuti, Moretti la estenua per ben 11 minuti (su 95 totali titoli compresi) in barba ad ogni pesatura che una piattaforma come Netflix gli imporrebbe. Non si tratta di provocazione fine a sé stessa: portando alle estreme conseguenze la gag, di fatto depotenziandola, l'autore mette a segno un atto di autoflagellazione in linea con tutto il suo cinema recente, mettendo in ridicolo le fissazioni e i «princìpi» che hanno testardamente orientato il suo vivere morale e civile. In un certo senso è una messa in discussione, sebbene fuor di dubbio ambigua, di quello «sguardo morale» che il critico Serge Toubiana ha usato per descrivere l'impronta stilistica della sua opera. Il collegamento paratelevisivo con Renzo Piano e le incursioni di Chiara Valerio e Corrado Augias sembrano scarti da "Aprile" in linea alla voluta sciatteria formale di quel film. Avallando tale ipotesi di lettura, a mio parere suffragata da tracce abbastanza eloquenti, la critica (scontata per antipatia personale) di Marco Giusti sullo stile alla "Lilli Gruber" di quelle inquadrature è segno che la sottile intelligenza di Moretti ha colto nel segno.

Un altro momento curioso è la scena in cui Giovanni/Moretti interrompe una scena del suo film perché a suo giudizio «brutta» e perché «le scene brutte non servono a niente». E lui cosa fa? Fa girare al Moretti-regista (dall'altra parte del set) una scena altrettanto brutta e girata malissimo con la troupe che volteggia sulle note di "Voglio vederti danzare". Montandola nel girato finale del "film sopra il film". L'astuzia di Moretti nel farsi perfetto «press agent di sé stesso» come riconobbe Monicelli nel famoso confronto del 1977, in questo caso prestando il fianco ai critici più impietosi, raggiunge qui la sua sintesi più alta.

Nell'opera non mancano rotture di quarte pareti, esperimenti diegetici ed extradiegetici nell'uso della musica (tante bellissime canzoni italiane e non solo). Non aggiungo nient'altro, se non che gli ultimi 5 minuti di ascendenza felliniana (nei suoi esiti più felici), rimarrà incastonata nella storia del cinema italiano.