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ANDRO' COME UN CAVALLO PAZZO regia di Fernando Arrabal

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Weltanschauung     9½ / 10  24/05/2012 12:59:30Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
*Presenza di Spolier

"Il Panico non è un movimento, non è una filosofia, non è un'estetica, non è una definizione, non è un manifesto, non è un'arte, non è scienza, non è questo e non è nemmeno quest'altro."
(Fernando Arrabal)

Fernando Arrabal è una delle figure più controverse e geniali del secolo passato, ha ottenuto vari plausi internazionali in tutto il mondo con le sue opere in campo letterario, cinematografico e teatrale.
Famoso soprattutto per aver fondato assieme ad Alejandro Jodorowsky e Roland Topor il cosiddetto 'teatro panico', un teatro in cui il sogno e la dimenticanza formano l'intessitura della narrazione, Arrabal è invece poco ricordato in campo cinematografico, dove tra il 1970 e il 1975 sfornò ben tre film di livello eccellente (ricevendo soltanto un premio Pasolini), ovvero "Viva La Muerte" (1970), "J'irai comme un cheval fou" (1972) e "Guernica" (1975).
Ed è proprio nel 1972 che lo spagnolo tirò fuori dal cilindro il suo capolavoro assoluto.

Un Arrabal sfacciatamente autobiografico, in "Viva La Muerte", ci aveva raccontato il rapporto edipico tra Fando e sua madre, autoritaria e religiosamente bigotta. "J'irai comme un cheval fou" ricomincia proprio da qui.

Nei titoli di testa l'incubo di Fussli: in un interno borghese un demone scimmiesco si siede in maniera decisa sul corpo di una giovane donna riversa sul letto, quasi da soffocarle il respiro. La citazione del poeta svizzero ci immerge immediatamente in un clima di surrealismo didascalico e si percepisce subito un disagio derivante dal legame uomo-natura.
Aden (questo il nuovo nome utilizzato dal protagonista) è cresciuto, ha ucciso la madre, le ha rubato tutto ed è in fuga verso il deserto dilaniato dai sensi di colpa. Il loro rapporto di amore ed odio lo ha sconquassato e attraverso dolorosi flashback ne veniamo a conoscenza.
Egli pensa e ripensa alla sua lacerazione infantile, agli orgasmi della sua generatrice con uomini orrendi e si masturba, si rivede bambino in una rastrelleria con una corona di spine in testa, rimembra le sue crisi epilettiche e le punizioni corporali subite.
Giunge nel deserto, luogo mistico di ascesi e di visioni, corroso dalla ricerca di una risposta sulle motivazioni del suo gesto atavico, ancestrale e supremo e qui viene a conoscenza di Marvel, una sorta di suo alterego pre-civilizzato. Questi è un nano (figura ricorrente anche nella filmografia dell'amico Alejandro Jodorowski) immortale e con poteri soprannaturali.
La chiave del film è rappresentata proprio da Marvel, personaggio funzionale alla riflessione sulla follia del mondo moderno consumistico di cui il regista spagnolo riprende i rituali, le ossessioni, le fobie, gli assilli e li delinea come tali.
Il freak rappresenta l'aldilà del bene e del male Nietzschiano: Adel inizialmente è intimorito, poi però, affascinato dal suo nuovo amico, decide di portarlo con sé nella civiltà, con l'obiettivo di renderlo ricco e felice.

I due si differenziano nel modo in cui si approcciano al mondo: il primo trascendendolo, tramite le sensazioni e l'intuito, il secondo attraverso la razionalità e la dialettica.
Marvel simboleggia il sè profondo, ed ecco che in lui si dissolvono i concetti dualistici maschile/femminile, gioventù/vecchiaia, finito/infinito, perituro/eterno, bellezza/bruttezza, inferno/paradiso, bene/male. Egli è l'emanazione pura della coscienza cosmica, dove il vero sè è un tutt'uno con l'Io dell'universo.
Aden invece rappresenta la mente. L'intelletto però può fare soltanto domande ma non rispondere; può credere ma non percepire; può forumlare ipotesi ma non conoscere.
Il suo ego non fa che ingannarlo continuamente, insegnandogli ad essere in mille modi che non sono autentici ed impedendogli di vivere usando l'organismo in tutta la sua estensione.
Marvel diverrà così, giorno dopo giorno, il modello spirituale da seguire e i due rafforzeranno il loro legame di amicizia girovagando per le città.
Il nano accetterà sempre di buon grado ogni proposta senza snaturarsi mai e vivendo la quotidianità in maniera bizzarra agli occhi dell'amico; davanti ai ristoranti rimarrà fortemente disgustato nell'osservare uomini che divorano animali cotti e nei viali inorridirà vedendo le deturpazioni inflitte alla natura. E così nella potatura di un albero si trasfigurerà nella sua mente l'immagine spasmodica di una donna a cui vengono strappati i denti.

Il percorso alchemico comincia e tra la sperimentazione di pratiche sessuali, canti gregoriani, masochismo, cannibalismo, degustazione di feci, polluzioni, insetti, amputazioni e travestimenti si arriverà all'atto finale di amore estremo: Aden chiederà all'amico di esser mangiato per esser così depurato della sua colpa e riportato in vita. Marvel obbedirà e sbranerà vivo il devoto prima di girare su se stesso vestito di bianco sotto il rosso del tramonto ad ascesi raggiunta.
Una reincarnazione ove non vi è trasmutazione, la stessa anima passerà da un corpo all'altro. La resurrezione di Aden rappresenta la trasmutazione alchemica in cui il piombo rinasce tramutato in oro.

Il regista ci racconta una storia in cui famiglia, religione, erotismo, incesto, omosessualità e patria vengono trattati in maniera tragicomica, così come l'epoca moderna impone.
Come spesso accade nelle opere di Arrabal, la memoria è vista come fondamento imprescindibile su cui formare il testo e la rappresentazione, la sua chiara ispirazione autobiografica prende così la forma di un racconto estremamente filtrato dal soggetto.

"J'irai comme un cheval fou" è un un film fortemente iconoclasta, il teatro panico viene trasferito sul grande schermo per omaggiare il caos, per testimoniare la distanza abissale dal sè profondo dell'uomo contemporaneo e la sua impossibilità nel liberarsi del karma del proprio albero genealogico.
Ciò che ci viene raccontato è inimmaginabile, onirico e eccedente di metafore: Arrabal trascende la modernità rappresentando la grande nevrosi moderna attraverso la fantasia di deliri surrealisti, il tutto condito da uno humour Jarryano di fondo.
Più estremo di Sade e più diretto di Jodorowski, nei titoli di coda osserviamo l'ennesima citazione pittorica: un ritratto che raffigura una parodia di Gabrielle D'Estrees...

Cala il sipario.

"Arrabal è meglio di Fellini, di Ingmar Bergman... sta al cinema come Rimbaud alla poesia."
(Raymond-Léopold Bruckberger, "Le Monde").