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IL RONZIO DELLE MOSCHE regia di Dario D'Ambrosi

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Invia una mail all'autore del commento GIOVANNI SANSONE     8 / 10  28/05/2003 18:51:30Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
"IL RONZIO DELLE MOSCHE"
UNA DOLCE POESIA SULLA DIVERSITÀ NEGATA DAL POTERE
l'esordio cinematografico di Dario D'Ambrosi, l'inventore del "teatro patologico"


Dario D'Ambrosi approda finalmente al cinema, non più interpretando inutili personaggi in film che non lasciano ricordi, ma nella sua essenza migliore, quella di autore e, soprattutto, di maestro di regia. La sua mano di regista è leggera: la fotografia, la musica e il montaggio sono semplicemente un corollario ad uno splendido lavoro di preparazione sul corpo d'attore.
Nel presentare la sua opera prima, D'Ambrosi ha descritto l'intenso lavoro di prove teatrali, che ha chiesto quotidianamente ai suoi attori, prima di girare qualsiasi scena. Sullo schermo cinematografico, c'è un gruppo di attori che si muove nell'unità delle emozioni, delle sensazioni, della consapevolezza del compito di testimonianza civile e politica a cui sono chiamati. In tal senso, non emerge alcun attore più di un altro, ma tutti insieme sono protagonisti di un rito sacro.
D'Ambrosi da oltre venti anni presenta sulle scene europee e statunitensi il suo "teatro patologico": il suo grande riferimento culturale è da sempre stato Antonin Artaud, colui che, nel Novecento, ha indicato a tutte le avanguardie artistiche nell'evento unico e irripetibile la strada per recuperare la sacralità dell'arte antica.
Il teatro di D'Ambrosi è sempre stato caratterizzato dal grido, dalla violenza delle emozioni e dalla dolcezza della scoperta delle diversità. Quadri di sacre rappresentazioni che, dalla scena alla platea, per ritornare sul palcoscenico, hanno sempre coinvolto, fin nelle viscere, il pubblico, mai spettatore inerte, ma sempre parte in causa della disperazione, del dolore e della gioia, che l'umanità dolente e gaudente dei personaggi di D'Ambrosi scopre e propone.
Il cinema di Dario D'Ambrosi comincia dove la sua ricerca teatrale era finita. Negli ultimi tempi, alcune sue nuove proposte teatrali sono state meno convincenti del passato, quasi che l'autore milanese si fosse perso e stentasse a ritrovarsi. Anche la riproposizione di alcune sue famose performance è sembrata talora una stanca ripetizione a memoria di un percorso del passato. Ora, il cinema restituisce al mondo dell'arte, della cultura e della politica il vero fondatore del "teatro patologico", un D' Ambrosi che si butta a capofitto nella sfida con se stesso, che non si risparmia, che si diverte e si compiace, non più tormentato come negli ultimi lavori teatrali, ma finalmente libero di volare e disponibile a librarsi in aria con tutto se stesso.
Con il cinema, D'Ambrosi ritrova tutti i suoi attori, quelli del suo "teatro patologico", quelli dei suoi festival teatrali e quelli che aveva sempre sognato di avere. Sono gli "attori" di D'Ambrosi, sono volti e corpi scavati dall'interno, sono personaggi che non sono in cerca d'autore: il lavoro sull'attore consegna al pubblico delle persone che hanno attraversato la propria disperazione e la propria gioia e che, davanti alla macchina da presa, rendono testimonianza della bellezza delle diversità umane. Sono gli "attori" di D'Ambrosi, così come esistono gli "attori" di Pasolini o quelli di Fellini.

In un futuro senza tempo e senza spazio, che somiglia tanto a quei sogni ad occhi aperti dell'uomo contemporaneo, in cui le immagini reali della vita si confondono e si contaminano con quelle virtuali della televisione, in cui passato e presente si assomigliano e si plasmano a somiglianza reciproca, senza più profondità e memoria, senza più tempo per riposare il corpo e lo spirito, quando tutto è già dato ed è sancito in sé, si svolge la vicenda narrata dal film.
In un futuro istituzionalizzato e istituzionalizzante, il Potere è in mano ad un'èlite di scienziati. Probabilmente, la classe medica ha preso definitivamente in mano il Potere, nel momento in cui è riuscita a debellare dal mondo la follia. Ora, è legittimata ad intervenire in tutti i settori della vita umana e in tutti gli aspetti della psiche umana.
Il problema che si pone nel futuro ipotizzato da D'Ambrosi consiste nel dilagare della noia e della depressione. Ecco, allora il Potere che decide di riportare nella società quella follia che, anni addietro, aveva vinto. Ma la medicalizzazione della società non consente di ri-creare un virus sconfitto, se non ritrovando resti di esso in qualche cavia umana.
Nella società organizzata del futuro, sono sfuggiti al controllo tre persone: sono gli ultimi tre folli rimasti sulla faccia della terra. Vengono catturati e studiati in laboratorio nei loro comportamenti rituali, stereotipati e incomprensibili all'esterno. La loro presunta violenta follia non emerge: essi vivono sereni nei propri spazi, tempi ed equilibri personali. Dove è finita la pazzia? Cosa è la malattia mentale? Sono questi i quesiti che si pongono gli scienziati di fronte alla tranquillità dei modi, alla placidità dei gesti e alla serenità ieratica dei tre folli, finché uno dei medici intuisce la terapia necessaria per fare esplodere la pazzia: riportare le tre persone nella loro originaria quotidianità, ricreando la meccanicità dei gesti lavorativi, l'artificialità dei rapporti interpersonali e la inutilità dello scorrere del tempo moderno.
L'esperimento riuscirà, ma gli scienziati non riusciranno ad impadronirsi del segreto della follia, di quel "ronzio delle mosche" in testa, che molte persone con disagio psichiatrico hanno da sempre raccontato.
Il finale del film è a sorpresa nella sua semplicità. È la giusta sintesi di una dolce poesia sulla diversità, che, talora, può diventare un pugno nello stomaco per chi non è abituato, nella propria quotidianità, a confrontarsi con l'alterità.

L'esordiente D'Ambrosi dimostra una padronanza tecnica e culturale del mezzo filmico inaspettata: più o meno inconsapevolmente, percorre alcuni dei momenti salienti del cinema d'autore degli ultimi quaranta anni.
Il film comincia in un'atmosfera che ricorda vagamente "Morte a Venezia" di Luchino Visconti e, certamente, il personaggio del vecchio psichiatra che racconta dà il senso della decadenza di una classe dominante ormai sconfitta. È un ulteriore futuro che rilegge un futuro del presente attuale, senza collocazioni materiali e temporali. Lo psichiatra emerge da un mondo sconosciuto, è vestito con abiti di fine Ottocento, mentre le sue segretarie sono vestite con abiti moderni. Come a suggerire un futuro circolare, che si rincorre tra presente e passato, che ritorna su se stesso.
La musica avvolge totalmente lo spettatore e lo induce ad un respiro e ad un battito del cuore non previsti.
L'uso del colore per i tre folli è molto originale. Supera addirittura la proposta cinematografica dei fratelli Taviani e del loro "Allònsanfan". Ciascuno dei tre folli è caratterizzato da un colore del volto: lo stesso colore caratterizza, per ciascuno di loro, il ritorno alla propria quotidianità. L'aspetto interessante è che i colori scelti non appartengono a nessuna teoria dei colori, né a studi di psicologia particolari, ma sono i colori "tipici" che alcuni pazienti psichiatrici assumono a seguito delle cure farmacologiche. D'Ambrosi afferma di avere studiato testi medici, in cui si descrivono le patologie che caratterizzano i tre folli del suo film, con l'indicazione dei medicinali appropriati per il controllo di tali malattie ed il colore dominante che deriva alla pelle del paziente dalla somministrazione dei farmaci.
La terapia che ricrea l'originaria quotidianità dei tre folli è girata in digitale. I movimenti di macchina sempre più veloci e senza regole, le immagini sgranate e sfocate, l'esplosione della linearità della narrazione si insinuano nel racconto cinematografico di base come un tumore che deturpa. È il cinema che diviene videoclip, graffito metropolitano, teatro patologico. È qui che lo spettatore è improvvisamente catapultato nella vita, nella vicenda della disperazione umana, nell'eterno ritorno della violenza razzista del Potere: la rappresentazione sacra mostra gli agnelli sacrificati. Essi non sono più persone: sono immagini che si sovrappongono e deflagrano, sancendo la morte del cinema commerciale. Qui D'Ambrosi ricorda l'esperienza di Wenders, che riprendeva gli ultimi giorni di vita di Nicholas Ray in "Nick's Movie", per sconfinare nella esasperazione di "The Truman Show" di Peter Weir, soprattutto nella parallela disperata scoperta delle telecamere nascoste da parte del folle Felice e di Truman.
La conclusione del film, quella che racconta una solare Greta Scacchi, è, infine, un ricordo indiretto di Fellini e del suo mondo spensierato fatto di giostre, trampolieri e voli onirici.
Si ha l'impressione che il film sia stato eccessivamente "tagliato" dal produttore o dal distributore: la speranza è che un giorno si possa vedere una versione dello stesso film libera dalle preoccupazioni commerciali del produttore e del distributore, quasi un "D'Ambrosi final-cut", in cui il regista abbia l'opportunità di far deflagrare la violenza della dolcezza della diversità dei suoi attori-personaggi-persone.