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FLAGS OF OUR FATHERS regia di Clint Eastwood

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kafka62     8½ / 10  28/02/2018 10:06:48Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
"Flags of our fathers" è prodotto, oltre che dallo stesso regista, anche da Steven Spielberg. Può essere perciò un gioco utile e interessante quello di analizzare i punti di contatto e quelli di differenza tra i due registi, il secondo dei quali aveva diretto anni prima un epocale film bellico quale "Salvate il soldato Ryan". Lo stile di entrambi è la quintessenza della classicità: i loro film sono i film che guarderanno fra cinquant'anni le nuove generazioni di cinefili come esempi emblematici del cinema americano a cavallo tra XX e XXI secolo. Ma se Spielberg ama collocarsi soprattutto sul versante della spettacolarità intelligente e un po' semplificatrice, quando non addirittura retorica (fanno eccezione poche pellicole, come ad esempio "Munich"), Eastwood è il campione di un cinema sobrio, virilmente composto, prosciugato di ogni sentimentalismo anche quando percorre le pericolose strade del melodramma. Lo spartiacque tra i due sta proprio nella figura dell'eroe: nel cinema di Spielberg gli eroi abbondano (magari evolvendo e maturando nel corso del film a partire da una condizione specularmene opposta, come il protagonista di "Schindler's list"), mentre in quello di Eastwood vengono demistificati e demoliti, anche se a questa operazione ne segue un'altra di segno contrario, mirante a tirar fuori la profonda e complessa umanità che si agita dentro i personaggi. La storia di "Flags of our fathers" è esemplare: la famosa fotografia dei soldati che piantano la bandiera a Iwo Jima conduce tre di loro a essere promossi del tutto immeritatamente al rango di eroi nazionali e a fare trionfalmente il giro degli States con il proposito di raccogliere quanti più fondi possibili per la costosa prosecuzione della guerra. Come in un moderno "Quarto potere", veniamo a sapere – attraverso intricati flash back e interviste del figlio di uno dei tre soldati ai compagni sopravvissuti – come andarono le cose: come la fotografia che aveva fatto il giro del mondo e dato origine a una campagna di trionfalistiche celebrazioni fosse in qualche modo un falso, come qualcuno dei soldati di cui nella foto non si vede la faccia c'era veramente e qualcun altro no. Ma Eastwood – come si è detto- se da una parte compie un'operazione di smitizzazione, dall'altra guarda con grande affetto ai suoi tre personaggi. Doc, René e Ira non sono certo degli eroi, sicuramente non più degli altri che – magari morti anonimamente in battaglia – non hanno mai avuto alcun momento di gloria. Il concetto di eroismo è – se così si può dire – un'invenzione politico-mediatica: serve per scopi prosaici (fare di un individuo l'alfiere di un ideale rivoluzionario, sollevare il morale di una nazione o – come nel film – assicurare la vendita dei "prestiti di guerra") o meramente psicologici (spingere l'immaginario collettivo a identificarsi con una figura ideale dai connotati tali da far sorgere il desiderio dell'emulazione), e alla base c'è un modello molto semplificato e manicheo del mondo, dove esisterebbero solo eroi o canaglie. La realtà è invece molto più complessa e sfaccettata, ed è questa realtà, con le sue aspirazioni, i suoi sogni, i suoi slanci di generosità, ma anche con i suoi egoismi, le sue paure e le sue vigliaccherie, che Eastwood intende esplorare, magari per raggiungere una conclusione analoga a quella ufficiale: che cioè i suoi eroi erano veramente dei grandi uomini, ma non perché pervasi dallo spirito patriottico e pronti a farsi immolare per la giustizia o la democrazia, bensì perché hanno lottato per loro stessi e per il compagno che era al loro fianco, come giovani qualunque in balia di una cosa assurda, incomprensibile e troppo più grande di loro come la guerra. E' questa visione intimista della vita che viene onorata in "Flags of our fathers", non la conquista militare dell'isola e la vittoria bellica, e più delle celebrazioni kitsch vale l'inappagato senso di nostalgia per uno spensierato bagno in mare tra giovani che avrebbero meritato di andare a fare il surfing sulle onde della California o studiare in un campus universitario piuttosto che andare incontro a una medaglia d'oro alla memoria o a un indesiderato futuro da eroi.
Con una originale ed elaborata struttura a incastri (uno dei due sceneggiatori è il premio Oscar Paul Haggis), in cui al presente si mescolano ricordi di guerra a Iwo Jima e – qualche mese più tardi – in terra d'America (a volte sovrapponendosi, come quando la notturna scalata al monte in mezzo ai cannoneggiamenti si scopre essere la presentazione dei tre eroi di fronte a uno stadio gremito di folla, illuminato dai fuochi d'artificio), "Flags of our fathers" è un film ricco di fascino visivo (specialmente nelle concitate e tesissime sequenze dei combattimenti) e di spunti di riflessione. Con il suo proverbiale perfezionismo, che ha permesso di rivivere quasi documentaristicamente le scene dello sbarco grazie al meticoloso restauro delle originali imbarcazioni della marina e a una straordinaria e virtuosistica fotografia che – senza essere bianco e nero – è riuscita praticamente a eliminare ogni colore, Eastwood ha scritto una pagina di grande cinema, che potrebbe rivelarsi un ideale punto di riferimento per chi volesse rivisitare in chiave critica e anticonformistica la storia americana moderna. A questo proposito può risultare interessante sapere che "Flags of our fathers" è la prima metà di un dittico, di cui fa parte anche "Lettere da Iwo Jima", film in cui la celebre battaglia viene vista dalla parte degli sconfitti: la definitiva riprova, se mai ce fosse il bisogno, che Eastwood (come il Fuller de "Il grande Uno Rosso") è in grado di comporre la frastagliata e caotica narrazione del mondo in una superiore visione di stampo umanistico, pronta ad accogliere perfino le istanze dei nemici, anch'essi vittime dell'insensata e orrenda violenza della guerra.