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SCACCO PAZZO regia di Alessandro Haber

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nino muzzi     7 / 10  16/12/2003 11:35:46Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Cri-cri, il transfer di pazzia

Scacco pazzo è il primo film di Haber, con Haber e due ottimi comprimari, Monica Scattini e Vittorio Franceschi. E’ uno spettacolo teatrale portato in giro per due anni e poi filmato. Non sopporta gli esterni, infatti non ce ne sono. L’estremo varco è un terrazzino affacciato sul mondo, nient’altro che un cortile disadorno e semideserto. Non si esce da quell’appartamento troppo grande e troppo in penombra per non denunciare già con la sua esistenza dilatata e oscura la scomparsa di chi doveva abitarlo e popolarlo. Non si esce in ampiezza, si può solo scavare in profondità. E questo fa il film, inesorabilmente.
Il suo decorso è come quello di un fiume che parte virulento, turbinoso e travolgente. Forse un po’ troppo di tutto questo, con un po’ troppa presenza scenica di Haber stesso, della sua fisicità minacciosa e soffocante, che non si lascia indagare (troppi primi piani), ma che invece quasi indaga te spettatore.
E poi il fiume si prosciuga lentamente e mostra la melma del fondo (come direbbe Flaubert).
Il film non è altro che l’elaborazione di un lutto. Un incidente stradale ha praticamente decimato una famiglia nell’atto più alto e più solenne di una celebrata felicità, le nozze.
Nozze di sangue che restano nella memoria del protagonista sano di mente come un abito bianco macchiato e nella mente del protagonista regredito come un semplice detto popolare: sposa bagnata, sposa fortunata.
Sì, perché l’incidente ha fatto sopravvivere i due fratelli, lasciando ad uno la colpa dei sopravvissuti e facendo regredire l’altro al livello di un’infanzia, torba, fra bagliori di pazzia e feticci di memoria, ma con straordinari recuperi linguistici.
Se il fratello sano continua a vivere e con solerte pazienza deve tenere in vita, feticisticamente, tutto il passato sepolto in quella casa, e si affanna ad arginare la pazzia del fratello e renderla “compatibile” col resto del mondo, il fratello regredito diventa per lo spettatore la chiave di lettura del lutto stesso, il corrosivo di quella finta normalità.
E qui si apre la parte più problematica del film stesso, la sua filosofia se vogliamo. La pazzia è dai primordi un rivelatore sociale, e sottolineo sociale. Il fratello sano è un mascheratore sociale: dice ai vicini che tutto è sotto controllo, che non devono temere il fratello pazzo, ma innocuo, dice alla fidanzata che il fratello non è una presenza inquietante, che non inquinerà la loro convivenza, tutto falso. E infine ripete a sé stesso il falso dilemma:
“Che devo fare di mio fratello? Lo metto in manicomio, lo ammazzo?”
Falso dilemma perché?
Ce lo rivela la presenza della fidanzata che dalla sua entrata in scena imprime un decorso più fluido al film, rendendolo per così dire più filmico e meno teatrale. La fidanzata è una donna sincera, innanzitutto con se stessa, e invece di chiudersi nello squallore di una vita mediocre e piena di mascherature, dialoga col fratello pazzo per imparare dal suo linguaggio a rivisitare se stessa e quindi la sua presenza negli altri, anche nella mente del fratello sano, che viene sempre dileggiato e mai disprezzato. Alla fine di questa antiterapia la donna si salva, non perché si defila, ma perché è guarita del suo passato, è rinata. Mentre i due fratelli restano soli in casa e si trasmettono la pazzia e si scambiano i ruoli: il pazzo indossa il feticcio per acquietare il sano, che resta un “sepolto vivo.”
Haber sa bene che la pazzia da sola non ha valenza rivoluzionaria, che, per esempio, la pazzia di Woyzeck, da lui stesso interpretato, è una pazzia moralistica e per certi versi reazionaria. Quindi non basta essere pazzi per rivelare l’assurdo sociale. Scacco pazzo –che meriterebbe piuttosto il titolo I feticci- sceglie una pazzia linguistica, e Haber qui è grande, bisogna riconoscerlo. La sua non è una lucida follia da Enrico IV, ma una pazzia linguistica, una pazzia di parole che si cercano con la logica dell’improvvisazione musicale (magari alla tromba).
Ma la filosofia resta amara, perché alla domanda che il fratello sano si fa all’inizio del film:
“E’ colpa mia se sono sopravvissuto?”
alla fine del film per bocca della fidanzata il pubblico impietrito ascolta la tranquilla, perentoria risposta:
“Sì, è colpa tua.”
Non si può vivere nelle pieghe dell’eccezione, la vita non può essere data e tolta a caso, chi si salva da un terremoto, da un’epidemia, da un campo di concentramento, da una guerra, da un genocidio o semplicemente da un lutto familiare non può tornare a vivere nella normalità, deve scegliere la pazzia linguistica per ri-dire il mondo: cri-cri.