caratteri piccoli caratteri medi caratteri grandi Chiudi finestra

PULP FICTION regia di Quentin Tarantino

Nascondi tutte le risposte
Visualizza tutte le risposte
Invia una mail all'autore del commento pompiere     8 / 10  29/04/2011 16:00:43Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
“La faccenda non è la bambina in pericolo. La faccenda è una rapina in banca fatta con un ***** di telefono!”.

Mentre la funzione del cinema classico era quella di utilizzare le “contraffazioni” narrative per generare interesse nello spettatore, “Pulp Fiction” fa vedere come le illusioni e i McGuffin prestino servizio a un disordine nei ruoli, a uno scombussolamento d’animo solo per il gusto di togliere gli equilibri e le certezze in chi vede. Non si sa più per chi parteggiare (ammesso che ciò sia indispensabile). Non si sa cosa c’è dentro la celeberrima valigetta, però siamo contenti di osservare i personaggi mentre la rincorrono, la possiedono, guardano cosa c’è dentro, divisi tra stati d’animo opposti. La valigetta non è nient’altro che quell’elemento-icona un po’ misconosciuto che ritroviamo sui nostri desktop, e che non siamo in grado di sapere bene a cosa serve finché non ci clicchiamo. Ammesso che il sistema operativo permetta questa funzione.

E’ un’incertezza che non tocca minimamente l’idea registica che Tarantino ha avuto per svolgere questo film. Pochi movimenti, macchina da presa quasi fissa, qualche stacco, nessuna iperbole visiva e la rinuncia a un montaggio rapido. La preferenza è ancora una volta verso i tempi lunghi, ingranditi così tanto da risultare quasi insostenibili. Tra quelli che restano maggiormente indelebili c’è il pigro piano sequenza in steadicam che riprende Vincent e Jules prima dell’incursione nell’appartamentino degli spacciatori e, con le stesse caratteristiche ma leggermente più corto, il trepidante rientro a casa di Bruce Willis nel tentativo di recuperare “The gold watch”.

Delizioso è il pedinamento che, fatto alle spalle di John Travolta, ci introduce all’esplorazione del “Jack Rabbit Slim’s”, locale dalle morfologiche sembianze risalenti a un’altra epoca. Le panoramiche ondeggianti in semisoggettiva, ci permettono di distinguere i camerieri-controfigura di Zorro, Marylin Monroe, James Dean, Mamie Van Doren. A questa sequenza segue la gara di twist, diretta con un’invidiabile attenzione verso il tempo reale, con tanto di ricognizione sulla levata di scarpe di Travolta e Thurman a dare un senso naturale di consequenzialità.
Una delle scene più belle è in aggiunta il “buco” di Vincent Vega: montaggio in parallelo tra la preparazione della dose nella casa dello spacciatore, con inquadrature tutte provenienti dal basso, e il viaggio in auto, i capelli al vento e, all’orizzonte, un fondale smaccatamente “dipinto” da immagini girate in precedenza, un po’ come si faceva nei vecchi film d’epoca. Quasi tutti gli spostamenti in auto sono così: è l’esaltazione della simulazione e lo svelamento di personaggi sempre più somiglianti a eroi dei disegni animati (lo “sconfinamento” di “Kill Bill” sarà, al riguardo, illuminante e accolto da chi scrive con enorme liberazione).

Non tutto il lavoro prodotto ha i suoi buoni risultati. A volte il ritmo ne risente: la pellicola si carica di staticità per via di una sceneggiatura che si dipana lentamente. La parola è sovrana, domina l’intera scena e ci coinvolge nella sua arte affabulatoria, offrendoci una mistura vigorosa di elementi di genere acquietati da un cerimoniale lessicale nel quale i dialoghi alternano mediocrità a intelligenza, non spingono mai verso un’azione certa (e il non sapere il futuro mette ansia in chi guarda/ascolta), avvicendando stili beffardi ad altri stolti e fingendo di rappresentare una filosofia che non c’è.

“Ha problemi di peso”.

“Cosa deve fare, poveraccio, è samoano!”.

Per fortuna arriva in soccorso l’ironia. Tarantino e Avary, autori dello script, hanno inserito alcune mirabili perle di sarcasmo, turpi e sconvenienti. Come quando veniamo informati di un tizio che ha tenuto nascosto un orologio nel sedere per 5 anni, per poi morire di dissenteria. Oppure quando Bruce Willis si trova costretto a scegliere tra una mazza da baseball, una motosega e una bella katana… Ci sarebbe da soffermarsi anche sulla “fine” tragicomica che si svolge nel RETRO del negozio di elettronica per sollevare un dubbio sulla presunta omofobia dell’autore, ma non ci sono elementi sufficienti per formulare un eventuale “rimprovero”.
Il dialogo sul massaggio ai piedi all’interno del ristorante invece, è frivolo e drammatico allo stesso tempo: da una parte sappiamo trattarsi di un atto che non dovrebbe giustificare moti di gelosia, dall’altra conosciamo il destino del “predecessore” di Vincent Vega, il quale ha fatto davvero una brutta fine. Ridere della morte, forse per scacciarla, è una risorsa che lo spettatore conserva per poi rituffarsi nell’intrigo feticista, dato che Tarantino, di lì a poco, sarà ancora una volta alle prese con i piedi…

A sostenere l’ossatura di “Pulp Fiction” provvedono anche i luoghi frequentati dai personaggi. Non poteva mancare il fast food che, oltre ad aprire e chiudere il film, quasi a volerlo contenere e proteggere da un’identità prettamente “americana”, esalta la popolarità della pellicola, indirizzandola verso quella collettività trasversale che si riconosce in un territorio così comune e accessibile.
Così come abbordabile risulta l’automobile, oggetto prezioso tanto da essere accudito e pulito; luogo deputato alle confessioni (su “cosa fare ad Amsterdam quando sei vivo”, sui cibi più prelibati per palati americani ordinari), ai nascondigli di droga, armi e cadaveri, e finanche utilizzato come tavolo nel locale alla moda frequentato da Mia e Vincent. Il rettangolo con linea tratteggiata è invece l’isola che non c’è: non dimentichiamoci che siamo in un fumetto, e a volte le parole non servono. Basta un mezzo grugnito e tutto si spiega da se’.

La sensazione è che, col passare del tempo e dopo ripetute visioni, “Pulp Fiction” non mantenga tutta quella forza che lascia dopo il primo impatto. Probabilmente i tempi dilatati appesantiscono alcune scene rendendole prevedibili. Tarantino rimane un esponente di un nuovo modo di parlare allo spettatore; il rischio è quello di annoiarlo o di prenderlo per sfinimento, tante sono le elucubrazioni a volte così personali e soggettive che minano alla base il suo intento.
Forse il metodo non è così indispensabile al cinema, però ben si adatta al nostro presente così “fluido”, pronto ad assorbire velocemente qualsiasi sottotesto, trangugiandolo senza pretendere che ci si fermi a pensare al gusto. Tutto sommato, alla fine, sentiamo che la pellicola non ci ha trasmesso un messaggio particolare e non ha assunto un punto di vista sociologico ben preciso. Nella sua intenzionale esteriorità si possono cogliere quelle affamate scie post-moderne che tanto si sono vantate di esistere grazie all’accumulo di informazioni, senza che si siano dannate troppo a decifrarle criticamente. Bastava servirsi del piacere dato dal libro/testo e rompere con il piacere dato dalla sostanza. Probabilmente le vere innovazioni si sono come esaurite. Sono rimaste le mute apatie.

L’opera di Tarantino resta un fenomeno di costume e un cult ormai indiscusso. Ostenta legioni di fedelissimi, pronti a citare a memoria alcune battute del film e a esaltarne la cultura pop. Lo stesso regista, come per giustificarsi e dare un tono autorevole a ciò che sta per esporre, all’inizio del suo film ci informa che l’American Heritage Dictionary definisce “pulp” una massa di materia informe e molle (viscere, carne martoriata e cervelli sbriciolati?), oppure un libro che tratta di argomenti sinistri, normalmente stampato su carta di qualità inferiore. Per l’appunto.