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QUALCOSA DI TRAVOLGENTE regia di Jonathan Demme

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kafka62     8½ / 10  27/04/2018 10:31:27Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Negli anni '20 Louise Brooks era divenuta, grazie a un celebre film di Pabst, "Lulu", il simbolo stesso della trasgressione sessuale e dell'erotismo femminile. Più di mezzo secolo dopo, Melanie Griffith (capelli corvini dal taglio geometrico, abito anch'esso nero e, guarda caso, lo stesso nome dell'eroina pabstiana) irrompe nell'ordinata esistenza di Jeff Daniels come una travolgente reincarnazione del mito di Cherryvale, debitamente aggiornato ai nostri giorni (occhialini scuri, braccialetti esotici da rito voodoo e bottiglia di whisky a portata di mano). C'è senza dubbio di che far perdere la testa a gente di gran lunga più smaliziata di quello yuppie simpatico ma un po' tontolone che è Charles Dricks. E difatti, in quelli che possono essere annoverati tra i venti minuti iniziali più irresistibili della recente storia del cinema, succede letteralmente di tutto: scorribande on the road, notti infuocate nei motel, rapine a negozi di liquori, fughe da ristoranti per non pagare il conto. Siamo – lo si è capito – dalle parti di "Fuori orario", sia per l'illogicità delle situazioni che per il naturale spaesamento del protagonista.
Quando però Lulu, senza preavviso alcuno, cambia vestito e capelli (bianco e verginale il primo, biondissimi i secondi) e diventa Audrey, il film si capovolge completamente. Dalle atmosfere ambiguamente dark si passa alle feste nostalgiche tra ex compagni di liceo. Charles viene metaforicamente liberato delle manette che si è finora portate appresso e conclude (apparentemente) il suo processo di iniziazione scambiando la sua impeccabile tenuta da dirigente d'azienda con uno sgargiante completo sportivo. Jonathan Demme vuole chiaramente disorientare lo spettatore, indurlo a credere di trovarsi di fronte a un film per poi mettergliene davanti agli occhi un altro. E quando quest'ultimo, faticosamente, è riuscito a digerire la metamorfosi di Melanie Griffith in una ragazzetta alla "American graffiti", ecco un ulteriore, netto cambiamento di rotta. L'entrata in scena di Ray Liotta fa infatti imboccare alla pellicola una strada inaspettatamente paranoica e violenta. E' il momento in cui il regista, consapevolmente, rischia di più, in quanto, compromettendo pesantemente il film con il quotidiano ed il prosaico, rinuncia alle indubbie potenzialità mitopoietiche della storia per adottare invece le coordinate, più sicure ma anche più ovvie, del genere (il thriller e il film sentimentale).
La conclusione non è in fondo molto diversa da quella di un qualsiasi prodotto hollywoodiano medio (alla "Pretty woman", tanto per intenderci), eppure è innegabile che in essa c'è molto di più. C'è anzitutto, oltre al coraggio – già evidenziato – di non voler raccontare una storia convenzionale e scontata, un risvolto che potremmo definire metanarrativo. L'alternanza tra fantasia e realtà all'interno della vicenda equivale, su un piano psicanalitico, al conflitto tra gli impulsi proibiti della libido (la trasgressione, l'eros) e l'aspirazione alla normalità (la drop-out che diventa una ragazza acqua e sapone). Ciò genera un forte complesso di colpa, che si materializza nel demoniaco personaggio di Ray, il quale deve essere drasticamente eliminato affinché le pulsioni dell'inconscio – ancorché debitamente normalizzate- possano venire accettate e vissute senza conflitti. Ad un livello meno astratto, il processo di liberazione del protagonista ricalca quello (caro a tanto cinema americano, da "Duel" a "Un tranquillo week-end di paura" e a "Cane di paglia") dell'uomo comune (meglio se un borghese o, come nel caso di "Qualcosa di travolgente", uno yuppie) che, posto di fronte a una situazione che mette a repentaglio la sua sopravvivenza, è costretto a disseppellire la propria natura ferina e selvaggia per poter risultare vittorioso.
Le ragioni di interesse del film sono anche di natura più propriamente stilistica. Perfino nei momenti meno ispirati della sceneggiatura Demme si rivela infatti un regista molto sensibile e personale. La sua collaudata esperienza di documentarista fa sì che gli ambienti metropolitani non cadano mai nel deja vu, ma presentino sempre nuovi motivi di vivacità e di colore (c'è ad esempio una scena in cui Daniels esce in strada e la macchina da presa, dimenticandosi quasi delle esigenze della storia, si sofferma a riprendere un gruppo di ragazzi negri che ballano). Questo fa il paio con l'altra predilezione di Demme, la musica. La colonna sonora, dalla canzone che dà il titolo al film al motivo latineggiante di Byrne sui titoli di testa, è una presenza quintessenziale all'interno dell'opera, conferendo ad essa la spigliatezza ed il ritmo di un videoclip. Grazie a questi e ad altri elementi (non bisogna dimenticare i tre ottimi e versatili interpreti), "Qualcosa di travolgente" riesce ad essere un film veloce, disinvolto, fresco e originale, per nulla inferiore al suo capolavoro di cinque anni dopo, "Il silenzio degli innocenti".