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LETTERE DA IWO JIMA regia di Clint Eastwood

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kafka62     8½ / 10  28/02/2018 10:11:02Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
L'originale e ambiziosa operazione tentata da Clint Eastwood con il suo dittico sulla battaglia di Iwo Jima mi ricorda "Il grande Uno Rosso" di Samuel Fuller, film in cui le ragioni belliche dei due nemici venivano contrapposte dal regista, con lo straniante effetto di eliderle, depotenziarle, e mostrare per ciò stesso la loro retorica ambiguità. Ma Eastwood, rispetto a Fuller, ha fatto qualcosa in più: ha dedicato a ciascuno degli eserciti in campo un film intero e a se stante, offrendo perciò una visione esattamente speculare e a 360 gradi del drammatico evento bellico. Se è vero che la simpatia che lo spettatore di una pellicola di guerra prova per i soldati protagonisti deriva principalmente dal punto di vista ravvicinato con cui la macchina da presa li osserva e dalla lontananza (almeno dal punto di vista emotivo e sentimentale) del nemico, con "Flags of our fathers" e "Lettere da Iwo Jima" Eastwood ha voluto, con un'onestà intellettuale senza eguali, rimettere le cose in perfetta parità, e mostrare i volti di tutti i personaggi che si fronteggiano sull'isola, nessuno escluso, calandosi nei panni (anzi, nelle divise) di americani e giapponesi ed eliminando in tal modo i reciproci stereotipi e luoghi comuni (tipo "i soldati nipponici sono sadici e sanguinari" oppure "quelli statunitensi sono vigliacchi e indisciplinati") dettati solo dalla ignoranza dell'altro. In "Lettere da Iwo Jima" ci sono due personaggi, il generale Kuribayashi e il tenente colonnello Nishi che hanno conosciuto l'America ed il suo popolo, e non nutrono perciò il disprezzo sciovinista per il nemico provato dagli altri militari. Essi sono, con la loro cavalleresca nobiltà d'animo, il tramite privilegiato che il regista usa per superare il manicheismo tipico dei war movies. Ma è un altro personaggio, quello del soldato semplice Saigo, il portavoce privilegiato del punto di vista di Eastwood: quest'ultimo è l'anti-eroe per eccellenza, che cerca in tutti i modi di sopravvivere (anche cercando di disertare) pur di tornare a casa dalla moglie e dalla figlia appena nata. Saigo è l'uomo comune, che rifugge naturalmente e istintivamente dalla logica assurda del patriottismo e della legge dell'onore, la quale esige dai soldati il sacrificio della vita con la morte in battaglia o con il rituale harakiri. Scene come quella in cui i camerati di Saigo si fanno esplodere con le bombe a mano pur di non consegnarsi vergognosamente ai nemici sono dei veri pugni nello stomaco dello spettatore; e a questa logica non sfugge neppure il generale, che pure è un uomo non privo di umanità e di buon senso. Il fatto è che la guerra è un ingranaggio che altera e distorce i più elementari principi etici, che annulla il valore della vita umana, sostituendo al suo posto, con lucida e metodica follia, quello antitetico della morte e dell'annientamento. Kuribayashi rende chiaramente questa verità quando dice di aver promesso di morire per i suoi cari, ma che proprio il pensare a loro rende il suo proposito più difficile e penoso. Alla fine, sono proprio le lettere del titolo, quelle scritte dai soldati ormai rassegnati a non tornare più a veder la loro casa e i loro familiari (e così simili a quelle dei loro avversari), a esprimere il senso più autentico del film, vale a dire quella invincibile, commovente scintilla di umanità e di amore per la vita che nessun giuramento di fedeltà alla Patria e all'Imperatore potrà mai cancellare, e che Eastwood traduce, con uno stile classico e riflessivo, con sobri flash back e con una fotografia dai colori desaturati che quasi non si distinguono dal bianco e nero, in un'opera dal grande valore umanistico.