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IN THE CUT regia di Jane Campion

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Woodman     9 / 10  21/08/2013 12:59:39Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
"In the cut" è, di fatto, un'opera poco compresa.
Film urbano a tinte fosche e dalle atmosfere efficacemente sporche e disturbanti, il settimo lavoro della Campion è risultato il meno popolare fra i suoi strani e potenti lungometraggi.

Le splendide cornici di "Lezioni di piano" e "Ritratto di signora" sono i confini in cui la regista sbatte le dolorose vicende delle sue protagoniste, sempre controverse, conturbanti e ben analizzate. Così da Ada ad Isabella, a Janet e a Ruth si è arrivati a Frannie (e alla sorella Pauline).

La nuova cornice è, a sorpresa, il degrado, la mer.da.

Questo nuovo ritratto di donne sfrutta quello che è perlopiù un pretesto, e cioè quello del whodunit, ovvero il lato che tutti hanno preso per unico ed effettivo all'interno del film.
Allora non mi stupisco che molti si siano scandalizzati. Per vedere questo film è necessario comprendere le intenzioni della Campion, disseminate nella sua filmografia, nel voler dipingere personaggi e contesti, vicende, trame, drammi per amplificare sempre più l'indagine nei primi.
Sinceramente, in tal senso, "In the cut" è un'operazione più che riuscita, spoglia del tutto di quell'inspiegabile accusa di "leccate" registiche nelle sequenze erotiche. L'erotismo è secco, brutale, fastidioso, proprio come lo sono tutti i peersonaggi, che, aiutati da una fotografia spettacolare (Don Beebe) e da un cast efficace (Ruffalo in particolar modo) ci presentano un universo senza buoni, senza luce, senza pietà, un mondo ancestrale, schiacciante, opprimente (grande uso dei primi piani e splendida idea quella di sfruttare pochi set e sempre con spazi piccoli, anche nelle scene del bosco e del faro).
Il taglio diventa quasi documentaristico, e non stupisce affatto. La cura per i cromatismi, i particolari e gli sguardi costituisce da sempre una garanzia tutta "campioniana", e anche stavolta la neozelandese ce la propone.
Nell'insieme quindi, "In the cut" non è dissimile da un frenetico e oscuro incubo carico di malsanità e angoscia. Si assiste ad un'analisi sempre più crescente di un personaggio ambiguo e ermetico (non proprio in parte la Ryan, ma ci si accontenta di vederla in un ruolo più fresco), circondata da altrettanta ambiguità, da cattiveria, brutalità, sofferenza. Ne fa le spese l'unico suo evidente affetto, la sorella di Jennifer Jason Leigh, sempre più scarna nelle guance, carica di erotismo e indolenza. Personaggio formidabile, che entra ben presto in empatia con lo spettatore, grazie all'ottima caratterizzazione.
Si prosegue disturbati, sempre più distaccati, allibiti, perplessi, sino al finale spiazzante, pregno di male e disperazione, una fotografia dell'irreversibile. Oramai il delirio è penetrato nell'esistenza della protagonista, non più grigia di prima, e destinata a continuare nell'incomunicabilità, nel disagio della bugia dell'amore, dell'orrore di una carnalità che anzichè avvicinare allontana sempre di più.
Il pessimismo stempera nel nichilismo, la solitudine va a braccetto con l'apatia, con i corpi intorpiditi e le anime irrequiete che ne sono prigioniere. Nei momenti in cui Frannie è sola con se stessa assistiamo ad un dolore senza filtri, che passa attraverso la sua solitudine putrescente, immersa in un clima marcio e delirante.
Proprio le atmosfere, un po' come per "Il silenzio degli innocenti" sono gli ideali specchi dell'anima, in questo caso intesa oggi come oggi fra questi esseri fragili e mediocri: spazi chiusi, degradanti, puzzolenti, squallidi e luridi.
Anime sporche, piccole, ma pur sempre intangibili da chi ci vede dall'esterno, disagi e ignoranza, malessere e crudeltà, trasfigurati nei truculenti omicidi.
Si perde di vista ogni cosa. Si perde materialmente ogni cosa.
E' uno schifo di realtà tutta sbattuta in faccia attraverso linee e false piste che somigliano tanto agli errori anche futili che commettiamo ogni fottuto giorno.
Non sarebbero stonate le musiche indecifrabili ed oniriche dei Cocteau Twins.
"in the cut", cioè "nella piaga, nel taglio", è un esercizio di stile che passa per le vie del cinema d'essai e sfrutta i metodi e le tecniche tipici di quel genere indie che tanto entusiasma le nuove generazioni, risultando un film originale, intrigante, in bilico fra il solleticante e il rigetto.
Meritava accoglienze migliori.
Non è uno di quei film da godere frammento per frammento, a scene prese singolarmente, ma rappresenta l'esatto opposto a livello di fruizione: va goduto d'un fiato, restandone ammaliati. Perchè, indubbiamente, "In the cut" ammalia.
Proporrei una rivalutazione. Una rivalutazione per un film dalle mille sfaccettature, assai più complesso di quanto trapeli dalle affossanti critiche.
Non il migliore fra i film della Campion, sempre sospesi fra sublime e ridicolo, e per questo così pieni di fascino. Credo sia un talento anche quello. Ma senz'altro un conturbante filmone malsano e saturo di negatività e cattiveria, di angoscia ed estraneità.
Toglie letteralmente il fiato.

Da gustare con predisposizione.
Senza soffermarsi sulla secondarietà e semplicità (spacciata per incapacità, e non è la prima volta che capita) della trama thriller o sulle piccole tette di Meg Ryan.