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L'ARGENT regia di Robert Bresson

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amterme63     6 / 10  08/03/2008 20:02:10Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Sono rimasto molto perplesso e quasi sconcertato dopo la visione del film. Con certe forme stilistiche “anticonvenzionali” si può essere indulgenti, ma solo fino ad certo punto; cioè fin tanto che lo stile o la forma astratta contribuiscono a rafforzare o a creare un certo tipo di messaggio o reazione nella mente e nell’animo dello spettatore. Qui ho avuto l’impressione che Bresson abbia un po’ esagerato con le sue caratteristiche stilistiche e che abbia finito per sconfinare (involontariamente?) nella maniera. Questa però è una mia impressione e posso anche sbagliare. Peccato che non ci siano altri commenti con cui confrontarmi.
Il film è ispirato a un racconto di Tolstoj (Il biglietto falso), che purtroppo non ho letto, ma che deve essere molto bello. La sete di denaro porta un giovane e ricco borghese a spacciare un biglietto di grossa taglia falso. Chi è “furbo” riesce a dare via il biglietto e a nascondere l’atto, non così il povero e onesto Ivon il quale si trova vittima di una serie di ingiustizie. Il suo carattere debole e remissivo lo porta a subire ogni genere di smacco (il destino gli si accanisce contro). Perde tutto, anche l’onestà e la dignità, e si riduce all’ingratitudine e all’assassinio pur di avere “l’argent”, il denaro, il principale strumento che ha “il diavolo” per diffondersi nella società umana. Nel finale sembra che ci sia un pentimento, un ravvedimento ma non si capisce come possa ormai servire.
Dalla trama potrebbe sembrare un film drammatico, intenso, coinvolgente. Invece si tratta di un film molto freddo, quasi astratto, dove si evita qualsiasi nota passionale, qualsiasi eruzione dell’animo. Gli attori hanno la stessa identica espressione passiva e smarrita dall’inizio alla fine. Le scene di violenza sono completamente nascoste o ridotte a simboli (una mano che spinge una giacca, il lavaggio di mani sporche di sangue, un’accetta che abbatte un lume). Le persone non hanno alcuna reazione o ribellione ma prendono tutto così come gli viene. Spesso si inquadrano i piedi, le mani e il busto dei personaggi, contribuendo alla sensanzione di “spersonalizzazione”.
Era così anche nei precedenti film di Bresson; però allora i personaggi avevano un po’ più di partecipazione interiore, una storia ben spiegata alle spalle oppure vivevano già in una dimensione astratta con i loro principi intellettuali (“Il diavolo probabilmente”). Questo sistema, applicato alla vita ordinaria di tutti i giorni, fallisce. Infatti non si ha l’impressione di vedere vita vissuta, ma semplicemente una messinscena per dimostrare un teorema morale. Quindi forse Bresson ha costruito artificiosamente un film per dimostrare come il libero arbitrio non esista, la volontà, la libertà siano solo illusioni: siamo solo marionette in mano al destino e agli istinti materiali più gretti.
Il presunto pentimento finale giunge in un momento in cui non si capisce quale utilità possa portare a Ivon, visto che l’esperienza del carcere l’ha già vissuta e non gli è servita a niente. Poi la tanto sbandierata “fede” di Bresson, qui proprio non si vede. E’ il diavolo che impera non certo D.io.
Sinceramente è un film troppo freddo, troppo astratto, troppo “dimostrativo” e poco vissuto. Lo stile tende a imprigionare l’espressione interiore e l’”estraniamento” dello spettatore finisce per provocare noia o rifiuto, piuttosto che stimolo alla riflessione. Peccato, perché la storia è bella e le conclusioni di Bresson non sono poi così campate per aria.