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NIGHTMARE DETECTIVE regia di Shinya Tsukamoto

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Invia una mail all'autore del commento kowalsky     10 / 10  04/10/2011 00:32:56Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Credo che nessuna cineteca che si rispetti debba privarsi di questo film. E per quanto Tsukamoto resti un oggetto del desiderio che non ho ancora avuto la facoltà di conoscere interamente, pochissimi cineasti al mondo (diciamo Lynch, al quale è spesso accostato, qualche volta Nolan) riescono a incidere con lo sguardo mettendo lo spettatore nella condizione di sostenere il loro metalinguaggio, o di rifiutarlo.
Credo che sia facile fraintendere un film come "Nighmare detective". Lo script - inanzitutto - si affida apparentemente a canovacci abusati (la figura del psycho-killer) o già ampiamente sfruttati (il vecchio tema Schnitzleriano della penetrazione dal sogno). La mia personalità più romantica pensa a Tsukamoto come a una sorta di identità capace di rendere contemporanee le ossessioni di Mishima, perchè alla fine gli opposti (amore/violenza/odio/pace/guerra/es/alter-ego) convivono insieme.
Sono d'accordo con Ghezzi nel definirlo un cinema "violentemente classico" perchè - e questo non è stato compreso dagli spettatori del film - siamo ancora davanti a una translazione dello sguardo, a un'interiorità purissima e coinvolgente, ben diversa dalla forza passiva (non cognitiva, ma semplicemente coercitiva) dei 3-d, ben lontana dagli horror e dai thriller tipici del cinema recente.
Non a caso lo stesso T. anima un non-personaggio, un uomo che si vendica dell'altro per uccidere se stesso, una corporatività che vive in simbiosi con gli altri e con lo spettatore. Qualcuno ha persino scritto che in questo film non ci sono grandi scene, che i dialoghi sono banali, etc. evidentemente non ha visto lo stesso film o forse ha rifiutato di vederlo (vedere non è vedere, è assorbire senza difese).
Basterebbe la lunga parte dedicata al "duello" tra due entità diverse e complementari, Nightmare e il killer - complementari perchè unite dallo stesso desiderio di morte - per applaudire fino a farsi arrossare le mani: uno di quei momenti di (grande) cinema dal quale non vorresti più uscire.
I personaggi entrano in scena e lo spettatore ignora il loro destino, sa però sovrapporsi tra di loro e convincersi della loro fragilità esistenziale. Come nei grandi virtuosismi usati dal regista le immagini vanno e vengono come se non esistessero identità eterne. Il cinema parte quindi da questa esigenza di mostrare tutto quello che lo sguardo ci nega, proiettandoci in un incubo che non è più un sogno rassicurante (v. l'identità tranquilla della gente) ma la forza brutale di una seconda natura che mostra il suo lato più mostruoso. La devianza psicologica di T. non ha al tempo stesso niente a che fare con i codici conformisti dell'horror moderno, ma supera le abitudini facendo leva sulla capacità di mettere in rilievo una serie di inedite asperità.
E' emblematica l'evoluzione di Keiko, la protagonista, sia quando afferma di aver voluto sperimentare nuove strade e "non aver mai visto prima un cadavere", sia quando ammette (consciamente) di aver provato il desiderio di morire.
Poi, se dobbiamo rifiutare la "classicità" secondo Tsukamoto per approvare altre sue opere solo apparentemente più seminali e simboliche, allora faremmo bene a rivolgerci ad emozioni più piatte. Quelle che garantiscono un perdurante livello di complicità e distacco, ehm visivo