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THE BUTTERFLY EFFECT regia di Eric Bress, J.Mackye Gruber

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ULTRAVIOLENCE78     7½ / 10  13/03/2009 19:32:46Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Per quasi tutta la durata del film ho pensato: “finalmente due autori che hanno le palle di trattare tematiche filosofico-esistenzialiste profonde, pessimistiche senza tema di subire le censure e stroncature degli addetti ai lavori e senza cedere ai prevedibili gusti del pubblico”. Però sfortunatamente arriva il finale a neutralizzare e mandare all’aria gli encomiabili propositi, su cui fino a quel momento si reggeva l’opera “de qua”: subentra il lieto fine risolutore che mette d’accordo tutti e buona notte a alle potentissime speculazioni, che potevano far aprire gli occhi su questioni sì scottanti e inquietanti, ma di imprescindibile rilevanza (se non altro per chi ha quel minimo di onestà intellettuale che gli consenta, quanto meno, di prenderle in considerazione).
Poi vengo a sapere che la pellicola in questione ha un finale alternativo (anzi due): lo visiono e tutto si ricompone. L’opzione scartata (chissà perché…) non fa che confermare –se non addirittura potenziare- la portata delle riflessioni sulle quali Eric Bress, J.Mackye Gruber avevano imbastito la struttura narrativa del film. E poco importa se la sceneggiatura presenta buchi, pecche e incongruenze: i contenuti sono così profondamente “devastanti” da far passare in secondo, terzo e quarto piano qualsiasi presunta lacuna.
In altre parole, dal finale ultra-pessimistico emerge in maniera netta e definitiva la visione sull’esistenza umana, segnata irrimediabilmente dal male e dall’assenza di giustizia (divina). Il potere, di cui dispone Evan Treborn, di tornare indietro nel tempo gli consente di sperimentare e verificare, innanzitutto, come la natura di ogni soggetto muti (in massima parte) a seconda delle esperienze che si sono accumulate nel corso della vita. Viene così meno qualsiasi possibilità di giudicare aprioristicamente un individuo, essendo il comportamento di questi la risultante di una fitta sequela di eventi-variabili che ne determinano l’agire esautorando la capacità volitiva.
Ma di là dagli aspetti “deterministici” che connotano ogni esistenza, Bress e Gruber vanno ancora più a fondo, gettando una luce su un punto focale: e cioè quello dell’impossibilità di trovare una soluzione al dolore che comporta il vivere. Il male è connaturato, consunstanziale alla storia, per cui non v'è possibilità di estinguerlo, come dimostrano i ripetuti tentativi drammaticamente esperiti dal protagonista della vicenda. In altre parole, e secondo la costruzione narrativa del film, le azioni poste in essere dall’uomo, qualsiasi esse siano, possono soltanto -per ipotesi- incidere in maniera relativa sulla storia, modificando sì gli eventi ma senza possibilità di ovviare definitivamente ai fatti infausti: il male rimane, persiste come il vento che soffia in direzioni di volta in volta differenti. Esso non perisce, ma si limita a spostarsi da situazione a situazione, da soggetto a soggetto: non si crea nè si distrugge, assume soltanto forme diverse. E l’unico modo per non subirlo e per dare scacco ad esso è –per buona pace di Ingmar Bergman- “non giocare la partita della vita”: paradossalmente il non esistere come risoluzione all’esistere.

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Mauro Lanari  15/03/2009 17:44:51Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Errata Corrige
Per quasi tutta la durata del film ho pensato: “finalmente due autori che hanno le palle di trattare tematiche filosofico-esistenzialiste profonde, pessimistiche senza timore di subire le censure e stroncature degli addetti ai lavori e senza cedere ai prevedibili gusti del pubblico”. Però sfortunatamente arriva il finale a neutralizzare e mandare all’aria gli encomiabili propositi su cui fino a quel momento si reggeva quest’opera: subentra il lieto fine risolutore che mette d’accordo tutti e buona notte alle potentissime speculazioni, che potevano far aprire gli occhi su problemi sì scottanti e inquietanti, ma d’imprescindibile rilevanza (se non altro per chi ha quel minimo d’onestà intellettuale che gli consenta, quanto meno, di prenderle in considerazione).
Poi vengo a sapere che il lavoro d’esordio della coppia di registi ha un finale alternativo (anzi due): lo visiono e tutto si ricompone. L’opzione scartata (chissà perché…) non fa che confermare –se non addirittura potenziare- la portata delle riflessioni sulle quali Eric Bress e J.Mackye Gruber avevano imbastito la struttura narrativa della pellicola. E poco importa se la sceneggiatura presenta buchi, pecche e incongruenze: i contenuti sono così profondamente “devastanti” da far passare in secondo, terzo e quarto piano qualsiasi presunta lacuna.
In altre parole, dal finale ultra-pessimistico emerge in maniera netta e definitiva la visione sull’esistenza umana, segnata irrimediabilmente dal male e dall’assenza di giustizia (divina). Il potere, di cui dispone Evan Treborn, di tornare indietro nel tempo gli consente di sperimentare e verificare, anzitutto, come la natura d’ogni soggetto muti (in massima parte) a seconda delle esperienze che si sono accumulate nel corso della vita. Viene così meno qualsiasi possibilità di giudicare aprioristicamente una persona, essendo il nostro comportamento la risultante d’una fitta sequela di eventi-variabili che determinano l’agire esautorando la capacità volitiva autonoma.
Ma di là dagli aspetti “deterministici” che connotano ogni esistenza, Bress e Gruber vanno ancora più a fondo, gettando una luce su un punto focale: e cioè quello dell’impossibilità di trovare una soluzione al dolore che comporta il vivere. Il male è connaturato, consunstanziale alla storia, per cui non v'è possibilità d’estinguerlo, come dimostrano i ripetuti tentativi drammaticamente provati dal protagonista della vicenda. In altre parole, e secondo il tema narrativo del film, qualsiasi azione può soltanto -per ipotesi- incidere in maniera relativa sul decorso degli avvenimenti, modificandoli pure, ma senza possibilità d’ovviare definitivamente ai fatti infausti: il male rimane, persiste come il vento che soffia in direzioni di volta in volta differenti. La negatività non perisce, bensì si limita a spostarsi da situazione a situazione, da soggetto a soggetto: non si crea né si distrugge, assume solo forme diverse. E l’unico modo per non subirla e per darle scacco sembrerebbe essere –con buona pace d’Ingmar Bergman- “non giocare la partita della vita”: paradossalmente il non esistere come risoluzione dell’esistere.

SPOILER
Il mio voto va alla versione ufficiale del film. A questo punto, forse sarebbe stato meglio il finale "alla harmony": così, al posto dell'amaro in bocca, si sarebbe avuto un po’ di miele…