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LUNGA VITA ALLA SIGNORA! regia di Ermanno Olmi

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kafka62     6½ / 10  06/04/2018 16:08:36Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
"Lunga vita alla signora!" è un film costruito su più piani paralleli: la consueta dimensione olmiana del "quotidiano" si accompagna a quella dell'apologo morale, il passato si alterna (per mezzo di numerosi flash back) al presente, l'oggettività della narrazione si confonde con il punto di vista soggettivo di Licenzio e il taglio quasi documentaristico di molte sequenze è in simbiosi con l'evidente carattere di "messa in scena" dell'insieme (dell'autore nei confronti della sua opera, ma anche dei personaggi nei confronti di quel vero e proprio rito teatrale che è il pranzo). Questo sta ad attestare che, nonostante l'apparente semplicità formale, "Lunga vita alla Signora!" è strutturalmente molto complesso. Il livello che predomina è comunque quello dell'apologo. Il film è una metafora fin troppo trasparente della società contemporanea: la villa in cui Licenzio e i suoi giovani compagni, appena usciti dalla scuola alberghiera, fanno il loro apprendistato lavorativo è infatti un microcosmo nel quale Olmi riassume tutti i meccanismi della vita sociale, dalla rigida gerarchizzazione dei ruoli all'esasperato formalismo, dalla perdita di valore dell'individuo (considerato come un mero ingranaggio del sistema) al soffocamento dei sentimenti. La Signora è poi un chiaro simbolo del Potere, che promuove o retrocede le persone con la stessa indifferente facilità con cui si può muovere una pedina sulla scacchiera o spostare un biglietto sulla tavola. Di lei non vediamo mai il viso, ma solo la funerea veletta, la silhoette incartapecorita e sfingea e i binocoli con i quali scruta ciò che avviene intorno a lei, come se a rimanere in vita fosse rimasto solamente il simulacro di ciò che rappresenta. Intorno alla Signora, e davanti agli occhi innocenti di Licenzio, si sviluppa una sottile trama di potere, fatta di adulazione, opportunismo, supina acquiescenza, servilismo e sotterfugi, trama a cui non sfugge nessuno (neppure il figlio "ribelle", il cui anticonformismo non rappresenta una reale alternativa di cambiamento, tanto è vero che egli viene tollerato – e reso inoffensivo – sia dalla padrona di casa sia dagli ospiti). Di fronte a questo desolante spettacolo, Licenzio sceglie nottetempo la fuga, incarnando in tal modo la morale di Olmi: è meglio fuggire fintantoché una porta rimane ancora aperta piuttosto che scendere a patti con il mondo ipocrita e immorale, è meglio cioè rimanere ragazzi, e recuperare una dimensione ludica dell'esistenza, che entrare nell'universo privo di innocenza degli adulti. Olmi non vuole chiudere le porte alla speranza, egli è anzi più ottimista del solito, come dimostra la bella scena conclusiva, in cui il temibile cane che insegue Licenzio si rivela a sorpresa mansueto e inoffensivo.
"Lunga vita alla Signora!" non manca di momenti ispirati: la breve visita del padre ha l'intensità delle migliori sequenze de "L'albero degli zoccoli"; i flashback dell'infanzia di Licenzio raggiungono punte di alta poesia (è stupenda l'immagine di Licenzio bambino che offre un giocattolo all'angelo dall'aria triste appeso alla parete della sua stanza); all'arrivo dei giovani alla villa viene descritto molto bene il loro disorientamento (rimane impresso soprattutto lo sguardo impaurito di una delle due ragazze nel momento in cui i sei giovani vengono divisi); la fuga notturna attraverso una porta sotterranea rivela a posteriori, con la perdita da parte di Licenzio del suo farfallino, che già qualcun altro prima di lui era scappato da quel posto. Vi sono al contrario alcuni aspetti del film che convincono meno o sono addirittura deludenti. Mentre l'assetto formale-narrativo, pur non eccelso, è sostanzialmente in linea con lo stile consueto di Olmi (soprattutto nei primi piani di Licenzio e nella sobrietà dei dialoghi, sovrastati, questi ultimi, dai meticolosi rituali dei preparativi e del banchetto), la dimensione allegorica del film provoca alcuni scompensi. Il simbolismo (il pesce gigantesco, la poltrona fatta venire da fuori, i bigliettini sulla tavola) risulta infatti troppo scoperto e sovrabbondante e non è sempre in grado di fondersi in maniera naturale con il resto della narrazione. Per compensare poi il sacrificio del coté realistico a vantaggio di quello metaforico, il regista adotta a tratti un registro grottesco: ma Olmi non è Fellini e i suoi eccentrici personaggi raramente riescono a raggiungere una consistenza che vada al di là della semplice macchietta. Inoltre il film cade spesso in un manicheismo di facile effetto, anche se insieme a sequenze di facile condanna della classe dominante (i bambini cinicamente abbandonati dalle madri a due clown-babysitter) vi sono anche momenti di inattesa e genuina solidarietà (il cameriere che presta il suo accendino a Licenzio, che ne era rimasto privo). La prima parte del film, in cui prevale un'atmosfera angosciosa e inquietante e su cui aleggia la misteriosa e temuta presenza della Signora, si fa preferire alla seconda, scandita dalla successione delle portate e dalla meticolosa (e francamente poco interessante) descrizione dei piccoli accadimenti della cena, creando da una parte un certo allentamento della tensione (dovuto anche al logico venir meno dell'ambigua fascinazione dell'attesa) e dall'altra un leggero scompenso narrativo, solo in parte bilanciato dagli indovinatissimi flashback dell'infanzia di Libenzio e dal suggestivo finale.