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IL GRANDE LEBOWSKI regia di Joel Coen

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Sybil_Vane     8 / 10  26/03/2013 16:48:57Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Un bicchiere di White Russian. Una partita di bowling. Un altro bicchiere di White Russian. Nessuna velleità e nessuna ambizione. La vita di Jeffrey "Drugo" Lebowski rotola lentamente verso il nulla: Drugo è un perdigiorno incallito, non ha un lavoro né intende cercarlo, sguazza serenamente nell'ozio più totale senza farsi domande né pretendere risposte; è quello che paga i 69 centesimi di latte con un assegno, che riceve gli ospiti in vestaglia e scarpe da ginnastica, che tiene gli occhiali da sole anche dentro casa. Vive circondato da figure bizzarre e grottesche, da personaggi istrionici e curiosi, che però si adattano così bene all'assurdo contesto in cui è immerso da risultare quasi… "normali". Quasi. E' tipico dei Coen del resto, quello di plasmare una girandola di soggetti così diversi e di farli interagire perfettamente tra di loro. O meglio, di dedicare una cura così maniacale alla psicologia dei personaggi da rendere la trama addirittura secondaria. E allora libero sfogo alla fantasia, con il reduce del Vietnam che ha problemi a contenere la rabbia (John Goodman), l'artista femminista che dipinge nuda in volo (Julienne Moore), e il ridicolo avversario in tutina colorata con un passato da pedofilo (un incredibile John Turturro).
La grandezza de Il grande Lebowski non è la trama in sé, è tutto quello che ci sta intorno: sono i dialoghi, volutamente inconcludenti ma mai vuoti o ridondanti; è la colonna sonora, una commistione di generi diversi per ogni diversa situazione; è la fotografia, misurata ed elegante ma mai virtuosa o autocelebrativa. I Coen confezionano una commedia tecnicamente perfetta, forgiata con una compostezza formale e stilistica che proietta visivamente il contenuto ultimo della narrazione. Il grande Lebowski è infatti una dichiarazione programmatica della loro filosofia di pensiero – il nichilismo – che questa volta non si limita ad aleggiare sulla trama: è esplicitato, dichiarato, messo alla berlina ("A lui non importa niente di niente. E' un nichilista" "Ah, dev'essere faticoso da morire"; "Sono i nazisti?" "No Donnie, sono i nichilisti: non c'è da avere paura"). Niente ha senso, la vita non porta a nulla, muore chi è sempre rimasto in disparte – Donnie – e Drugo rimane sbandato e spiantato. Non resta che lasciarsi trasportare dalle situazioni e rotolare senza meta, come una palla da bowling sul parquet o la balla di fieno in preda al vento, lasciando da parte tutti i "Chi siamo?", "Da dove veniamo?" e "Dove andiamo?" che non troveranno mai risposta.
L'intera struttura narrativa è un assoluto nonsense: Drugo si trova in mezzo a una faccenda di debiti e rapimenti per un equivoco – viene scambiato per il suo omonimo, il milionario signor Lebowski - , e sceglie di andare a fondo alla questione non per vendetta personale, ma mosso da un senso di giustizia nei confronti del suo tappeto. Il tappeto, elemento costante della pellicola, quello che "dà un tono all'ambiente" e che i criminali hanno così impunemente insozzato, è l'inedita molla che fa scattare una narrazione in continua ascesa, disseminata di eventi dinamici e ritmata da colpi di scena.
Nell'universo coeniano in cui "tutto-può-succedere-ma-non-chiedetevi-il-perché" riemergono volti noti e compaiono nomi nuovi: Steve Buscemi, John Goodman e John Turturro, i fedelissimi di casa Coen, onorano il fortunato sodalizio con i due fratelli regalando l'ennesima, originale, interpretazione; Jeff Bridges e Julienne Moore, invece alla prima esperienza, si votano alla causa con zelo e personalità e superano la prova con plausi e meriti.
Morale della favola, Il grande Lebowski entra a far parte della storia del cinema e ottiene un successo di pubblico talmente ampio da entrare di diritto nella categoria "cult".

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