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PEPPERMINT CANDY regia di Chang-dong Lee

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elio91     8 / 10  24/05/2012 09:40:41Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
Incipit: siamo nel 1999, in un picnic tra vecchi compagni di scuola; si canta, si balla e ci si diverte tranne Young-Ho, visibilmente allo sbando. Young-Ho si fa mettere sotto da un treno urlando "Ritornerò!".
Già questo (non) inizio dovrebbe darci l'idea di cosa andremo a vedere, ovvero un viaggio a ritroso nella morte continuata di un uomo; probabilmente lo spettatore penserà "adesso scopriremo il perché di questo gesto" e in minima parte è cosi già dal primo flashback (e il treno, a scandire i capitolo, va avanti senza mai fermarsi): Young-Ho è un uomo che ha perso qualunque cosa, materiale e spirituale. Il suo gesto estremo che nel primo flashback è ritardato in un modo o nell'altro ma minacciato in continuazione con una pistola puntata alla testa, è puntualmente avvenuto successivamente con il treno.
A questo punto, anche se ci sono suggerimenti e allusioni a personaggi che non conosciamo ma sappiamo conosceremo presto, il film potrebbe tranquillamente finire. Il senso lo capiremmo. Ma Peppermint Candy non è la storia dei motivi che portano il protagonista al suicidio, o almeno non lo è del tutto. Più si va indietro, più non si riesce a trovare un angolo di pace e serenità, una visione idilliaca come ad esempio quella di Gaspar Noé in Irreversibile, opera simile nella forma ma completamente distante nei significati; questa diceva infatti che "il tempo distrugge ogni cosa", facendoci partire da una situazione di violenza, per farci giungere al seme che questa violenza l'ha scatenata fino ad arrivare al finale-inizio calmo, tranquillo, pacificatore (in realtà, col maledetto senno di poi, "irreversibile" da ciò che poi accadrà). Non parliamo poi di Memento, per cui vale il discorso come sopra della forma simile ma significati diversi.
Chang Dong-Lee, uno dei registi coreani più grandi, "chiude" letteralmente questo suo Peppermint Candy come una gabbia senza vie d'uscita; è una strada che sempre porta allo stesso punto, circolare. Senza ottimismo. Spietata.
In tal senso, quel finale con il "ritornerò" urlato a pieni polmoni già sembra suggerire qualcosa, e quando il protagonista in uno dei capitoli del passato raggiunge l'orgasmo sentendo subito dopo il rumore del treno (vede Dìo o la morte o tutti e due insieme?) si fanno strada echi del concetto dell'eterno ritorno Nietzscheano di una vita condannata forse a ripetersi all'infinito ma cosa peggiore forse già accaduta infinite volte.
Arrivati al finale (l'inizio), che poi è una chiusura classica nei film circolari, si viene rimandati direttamente all'inizio (cioé, la fine) ma ancora una volta non viene mostrato alcun senso idilliaco nella spensieratezza della giovinezza laddove Young-Ho ha un qualcosa dentro che non gli permette neanche adesso di essere felici ma solo di versare lacrime verso un destino già scritto.
In tal senso, una delle opere più pessimiste che vi capiterà di vedere dove il tempo non corrode ogni cosa ma ogni cosa ha già corroso il tempo. Da sempre.

Chang-dong Lee poi è un autore straordinario perché a questa sua seconda opera, già di per sé pregna di significati profondi ed interessanti, unisce una spietata poeticità fatta di naturalezza, spontaneità, senza mai esagerare in virtuosismi, nascondendosi dietro la macchina da presa e lasciando parlare le immagini fin troppo reali. Peppermint Candy non ha comunque solo un risvolto intimistico ma anche sociale: il regista del futuro Oasis (un gioiello di inestimabile valore) anche in questo caso inserisce temi scottanti come quello della violenza nella polizia coreana (da lì sono un pò come da noi, almeno tempo fa lo erano). E di una società sempre più interessata al capitalismo spietato negli affari. D'altronde lo stesso Lee è diventato poi ministro della cultura e del turismo, e il suo cinema merita di essere visto proprio perché come pochissimi altri al mondo oggi (Loach in primis) riesce ad unire storie borderline di disadattati o diversi, con temi filosofici o comunque di un certo livello, ad altre di carattere impegnato. Ma riesce a farlo meglio di tutti.