Un racconto memorabile ambientato nella Los Angeles degli anni '20, una storia di ambizioni smisurate e di eccessi oltraggiosi, che ripercorre l'ascesa e la caduta di molteplici personaggi in un'epoca di sfrenata decadenza e depravazione nella sfavillante Hollywood.
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Un tedio infinito, una mera prova di stile, una sorta di "C'era una volta a Hollywood" venuto male! L'inizio mi era pure piaciuto ma poi ho cominciato ad odiarlo sia per i contenuti che per la durata esagerata. A nulla possono le ottime interpretazioni. Film eccessivo senza un valido motivo.
L'elefante era già posto al centro simbolico d'Hollywood in "Good Morning Babilonia", fratelli Taviani '87, uno dei loro film meno riusciti. Non ho idea di come Chazelle potesse credersi accattivante col dramma d'una manciata di protagonisti e d'un periodo storico dop'averli tratteggiati per la prima metà dei 189 minuti come "putridi e putrescenti" (Roberto Manassero). Coprofilia e urofilia nostalgiche? Voleva evocare l'inarrestabile declino d'un'epoca depravata e oltraggiosa bypassando la magia dell'identificazione con chiunque v'avesse preso parte? Monologo rassicurante: "L'arte è per sempre". Allora perché farsi coinvolgere dal tragico destino degl'attori? Rimpallando fra immortalità e crepuscolarità, eternità e caducità, si passa da una contraddizione all'altra in un'irrisolta ambivalenza. Una virtuosistica ode al cinema in sala quant'i registi citati (Kubrick, Spielberg, Cameron, ecc.), e se ha clamorosamente floppato nel suo intento, un motivo ci sarà e ipotizzo che l'autoreferenziale indulgenza metacinematografica attrae sì e no qualche cinefilo, il "come" sarà pure mirabolante mentr'il "cosa" lascia indifferenti ed estenua. https://www.cineforum.it/voti/film/Babylon https://www.sentieriselvaggi.it/babylon-di-damien-chazelle/
Io non mi capacito di come si possa considerare questo un film riuscito, o anche solo piacevole.
I primi 60-90 minuti hanno pure diverse scene godibili. Certo, la sensazione di ipertrofico narcisismo del regista, che si perde fin troppo spesso in manierismi fini a se stessi tralasciando un qualsiasi sviluppo dei personaggi, è già evidente.
Ma è con i secondi 90 minuti che le cose vanno progressivamente peggio, fino all'insensato, delirante finale, in cui ho provato un misto do fastidio ed imbarazzo per il regista. Ma veramente nessuno ha avuto il coraggio di dirgli quanto poco funzionasse quella sequenza iterminabile di spezzoni buttati a casaccio, colori a casaccio, e stacco finale sulla faccia basita con i lacrimoni? Agghiacciante.
Di certi film si dice che hanno un paio di scene di troppo, o potevano finire 10 minuti prima. Questo avrà almeno venti scene di troppo, è un'agonia, almeno metà del film doveva e poteva essere tagliato.
Vogliamo poi parlare di Sidney? Imbarazzante quanto poco questo personaggio, che nelle intenzioni iniziali doveva essere sullo stesso piano di quelli di Pitt e Robbie, sia approfondito. Rimane una figurina letteralmente per tutto il film, non ci viene dato il minimo sviluppo, la minima ragione perchè ce ne importi qualcosa. Personaggio inserito a forza per la quota diversità, senza che Chazelle lo sentisse davvero suo? L'impressione è quella.
Lo scoppio della crisi virale nel marzo 2020 ha spinto i filmmaker più lungimiranti a sfruttare la chiusura delle sale, le più o meno discutibili politiche sanitarie atte al contenimento dei contagi e la rapida ascesa dell'intrattenimento on demand come spunti per riflettere lo stato dell'industria hollywoodiana a cent'anni dalla sua fondazione. Damien Chazelle si unisce alla cricca, dimostrando di amare incondizionatamente l'arte a cui si è consacrato, al contrario dei rozzi e ipocriti meccanismi del sistema industriale su cui essa si regge. Il discorso metatestuale prende vita con lo stile barocco del regista di La La Land (in questa occasione proiettato verso l'immaginario del grande cinema americano a cavallo tra Anni Venti e Cinquanta), traducendosi in un mosaico irriverente e post-moderno che a più riprese sembra voler fornire una risposta complementare all'ultimo Tarantino. Tralasciando la ben visibile abilità nella gestione di ogni componente registica e nella ricostruzione scenica, di gran pregio sono tutte quelle sequenze dedicate al processo creativo dei film, ben incastonate in una storiografia visuale sulla transizione muto-sonoro, con tutte le evoluzioni tecnologiche derivate. Equamente straordinaria è l'atmosfera da baccanale noir che ammanta le vicende: più che Babilonia, Hollywood pare un Olimpo popolato da divinità del tabloid in preda ai capricci e ai vizi più sfrenati, disincantate vittime della propria brama d'immortalità. Purtroppo Chazelle regista non esplicita la stessa raffinatezza con la penna. La sua sceneggiatura velleitaria perde ben presto il senso della misura nell'accumulo di sottotrame, sottotesti e personaggi labili; fin troppo spesso si ha la sensazione che il film non sappia quale direzione prendere e che i protagonisti compiano un percorso evolutivo di cui viene mostrato solo lo stato iniziale e quello finale, suscitando non indifferenti dubbi. Maldestri inoltre i tentativi di dare profondità tramite dialoghi didascalici, mentre tutte le soluzioni visive atte a scioccare (il vomito, la *****, lo sperma) alla lunga imbarbariscono l'operazione, risultando superflue. Incolpevole il cast, che chiaramente si trova intrappolato in ruoli tagliati con l'accetta. Tra Brad Pitt col pilota automatico e un Jovan Adepo che pare passato per caso sul set, spicca la mimesi di Margot Robbie nei panni della menade Nellie LaRoy, facilmente tra le icone del nuovo decennio. Tobey Maguire è l'insospettabile sorpresa del film, non fosse per la natura filler della sua storyline. La sequenza finale con immagini di Avatar, Matrix e altri titoli seminali è quanto di più ricattatorio e spudorato potesse offrire un film come Babylon, esempio di cinema commerciale che, pur mirando all'atto d'accusa contro l'industria che minaccia l'arte, finisce per adagiarsi tra gli allori della stessa industria.