dies irae regia di Carl Theodor Dreyer Danimarca 1943
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dies irae (1943)

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locandina del film DIES IRAE

Titolo Originale: VREDENS DAG

RegiaCarl Theodor Dreyer

InterpretiThorkild Roose, Lisbeth Movin, Sigrid Neiiendam, Preben Lerdorff Rye, Anna Svierkier, Albert Høeberg, Olaf Ussing

Durata: h 1.33
NazionalitàDanimarca 1943
Generedrammatico
Al cinema nell'Agosto 1943

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Trama del film Dies irae

Terminati gli studi, il giovane Martino ritorna alla casa paterna in un villaggio della Danimarca: corre l'anno 1632 e tutto il paese è avvolto nella cupa atmosfera della riforma luterana. Martino è figlio di primo letto del giudice e pastore Assalonne Pederson, che, rimasto vedovo, ha sposato la giovane Anna. Martino fa ora la conoscenza della matrigna, che ha sposato suo padre non per amore, ma mossa da un sentimento di riconoscenza: il pastore ha infatti salvato dal rogo sua madre, accusata di stregoneria. Tra la matrigna e il figliastro sorge un amore improvviso, che Merete, la vecchia madre di Assalonne scopre ben presto.

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Voti e commenti su Dies irae, 31 opinioni inserite

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  Pagina di 1  

Gruppo COLLABORATORI ULTRAVIOLENCE78  @  10/02/2009 12:50:02
   8 / 10
Un film tanto profondo e intenso quanto pesante, poiché fondato su una struttura narrativa esaperatamente lenta, a sua volta amplificata dalla cifra registica adottata da Carl Theodor Dreyer: il montaggio è ridotto all’osso, mentre prevalgono le inquadrature fisse, nonché movimenti della mdp e carrellate lievi che accompagnano l’azione in tutto il suo “incedere strascicato”.
Si tratta, ad ogni buon conto, di un’opera fondamentale della cinematografia mondiale: una pellicola permeata di esistenzialismo, nella quale si avvertono gli echi “kierkegaardiani” sull’avversione contro l’esiziale e fatuo formalismo ecclesiastico (esemplato da uno dei periodi più bui della storia della Chiesa), che si pone come la negazione del più puro concetto di cristianesimo, basato invece sul personale, interiore e diretto rapporto tra l’io e Dio.
C’è poi molto pessimismo (probabilmente indotto anche dal contesto storico: l’invasione della Danimarca da parte del regime nazista): un pessimismo che “si tocca con mano”, in virtù delle atmosfere scure e dei giochi di ombre sapientemente riprodotti dal regista danese, e che si fa strada con le riflessioni sulla misera esistenza dell’uomo, dove “dietro ogni felicità si nasconde un peccato”. Una esistenza, dunque, ove la gioia sembra essere soltanto un miraggio, come manifesta il contrasto scenico tra il momento –l’unico- in cui Martin e Anne si ritrovano spensierati ad immaginare il loro futuro (nel quale la serenità dei due amanti si riverbera sull’ambiente circostante) e quello successivo che segna l’incipiente rottura tra i due (nel quale, invece, alla minaccia della fine del loro idillio fa da risonanza la rappresentazione di una natura nebbiosa e inquietante); un’esistenza dove la libertà e l’amore vengono surclassati dal senso di colpa e dall’odio.
Il finale è un esempio altissimo di climax emotiva, e costituisce uno dei momenti cinematografici più potenti sull’impotenza del soggetto di fronte all’inoppugnabile e tragico corso degli eventi.

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