Un uomo stralunato e con evidenti problemi psicologici concepisce un figlio insieme alla sua compagna. Il bambino risulta essere una creatura mostruosa, ma l'uomo cerca ugualmente di allevarla.
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E' il 1977 quando David Lynch, dopo una lunga gestazione, termina le riprese di "Eraserhead". Il primo lungometraggio del regista americano è preceduto da una serie di corti per così dire propedeutici -alcuni molto riusciti, come "The Alphabet" e "The Grandmother", nei quali sono già ravvisabili i prodromi di quella vena altamente sperimentale che caratterizzerà quasi tutta la sua fortunata produzione successiva, nonché i germi di parte delle tematiche che connoteranno proprio "Eraserhead". Quelle paure e angosce, che erano state rappresentate nei succitati cortometraggi, troveranno pieno sfogo nel film del '77, approdando ad estremizzazioni di notevole impatto emotivo e visivo. Con "Eraserhead" Lynch mette anzitutto in scena, nel contesto di una periferia industriale degradantissima, la famiglia americana di provincia, colta nel suo squallore più becero. Quattro componenti: il padre, la madre, la figlia e la nonna, che il regista tratteggia come personaggi involgariti e abbruttiti da un'esistenza grama e "routinaria", segnata dall'alienazione riveniente da lavori, abitudini e aspettative tragicamente mediocri. La famiglia stessa diventa un incubo per il personaggio principale della vicenda, Jack Nance: incubo che si perpetua, senza soluzione di continuità, tanto nella mente di questi quanto nella realtà. Finzione e verità, conscio e subconscio si fondono, diventando un "unicum" in cui è indiscernibile ciò che viene percepito a livello cosciente da ciò che è sognato o soltanto immaginato, in quanto entrambe gli aspetti attengono a stati emotivi che sono propri della condizione esistenziale del protagonista, e che promanano dalla sua "real life". All'incombente minaccia di una famiglia opprimente si unisce pure l'angoscia legata alla paternità. Il neonato "mostrificato" è il simbolo di qualcosa di non voluto e non accettato, che pervade la vita del padre, ammorbandola in ogni suo momento: dall'esperienza pre-coniugale agli incontri con l'amante, fino ad arrivare alle visioni oniriche culminanti nella caduta della testa del protagonista che, raccolta da un ragazzino, viene portata in una sorta di laboratorio, dove si procede all'estrazione di materia cerebrale destinata alla fabbricazione di gomme per matite. La prova funziona: il tratto sul foglio viene cancellato, ma niente in realtà è definitivamente eliminato. Il pulviscolo formatosi in seguito all'uso della gomma è il segno di qualcosa che non può essere rimosso. La mente cancella, ma solo apparentemente: tutto ritorna, proprio come quel pulviscolo che, successivamente, si vedrà avvolgere il volto attonito del protagonista, per sempre condannato al rimorso per il misfatto perpetrato: l'assassinio del figlio. Atto che cortocircuita il sistema di un "regista" superiore: una sorta di "Dio minore" sfregiato, destinato ai soggetti più umili e miserabili, che ha il potere di determinare la nascita di un individuo (cfr. la sequenza in cui questi, dopo aver azionato alcune leve, attiva un percorso dello spermatozoo che si conclude con una luce bianca: il venire al mondo), ma a cui viene corrispondentemente tolto quello di deciderne la morte a causa della disumanità terrena. Dunque, nella mente "allucinata" di Lynch, aldiquà e aldilà sarebbero speculari: quanto di triviale e disgustoso v'è nel primo si ritrova anche nel secondo, dove pure quello che sembrerebbe essere un potenziale paradiso si rivela abitato da un essere inquietante e deforme: una donna col viso mostruoso, che si esibisce sul proscenio di un immaginario teatro intonando una canzoncina proprio sul paradiso. Immagine che ricorrerà più volte, e con elementi sempre nuovi (come quello della caduta dall'alto di feti, destinati ad essere calpestati), fino ad arrivare al gesto conclusivo: l'abbraccio tra la stessa donna e Nance, seguito da un ultimo bagliore a suggello del trapasso finale. Il talento visionario di Lynch, di cui già si era avuto un saggio nei cortometraggi della sua prima produzione, trova piena espressione in quest'opera. Notevoli le atmosfere decadenti riprodotte, nelle quali si denotano richiami a quelle delineate nel romanzo "Il Processo". Sembrerebbe di matrice kafkiana, infatti, lo squallore nel quale è immersa tutta la vicenda: dal personaggio della dirimpettaia, animata esclusivamente da un impulso sessuale (straordinario il primo-piano di lei che affiora nel buio) all'aridità degli esterni contrassegnati da palazzoni imponenti e inestetici, fino all'illuminazione cupa e grigia. A questi rimandi si aggiunge, ovviamente, la eccezionale capacità immaginifica (che affonda le sue radici nella pittura) del regista statunitense, la quale ha fatto di "Eraserhead" un'opera esemplare nell'ambito delle produzioni cinematografiche sperimentali e weird.