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Dopo Alice Svankmajer prende e "maltratta" il Faust. Film particolare, di difficile fruizione ma comunque buono. E' lecito preferire altro del grande regista ceco.
Non ho mai capito e mai capirò il fascino che la storia di Faust ha esercitato nei secoli sulla cultura occidentale. Da Milton a Goethe fino a Sokurov non so perché la banale e stucchevole storiella del vendere l'anima al diavolo abbia interessato così tanto gli artisti. E Svankmajer, il cui più grande difetto è essere un europeo, non si sottrae al problema di rappresentare una storia che ha dalla sua l'essere universale. Svankmajer adora le storie universali. Mi aspettavo che questo film non fosse entusiasmante, Faust richiama sempre il concetto di "noia profonda", non si ha mai troppa voglia di guardare o leggere un rifacimento di tale opera filosofica. Dalla sua il film di Svankmajer ha un grande inizio e uno strepitoso finale. Ma per il resto l'ho trovato verboso e inseguibile, troppo ostico per i miei gusti. Il cinema non può essere solo noia. Meno pesante di Alice, ma non per questo un grande film. Il praghese ha fatto molto di meglio.
E' il primo lungometraggio di Jan Svankmajer che vedo e non mi ha lasciato certamente indifferente. Lo stile del regista è pienamente riconoscibile fin dalle ambientazioni, dal grigiore quotidiano del protagonista fino ad immergersi nello squallore di palazzi fatiscenti che nascondono mondi nascosti in cui viene rappresentata nelle più disparate maniere, la condizione dell'essere umano. Circolare nella sua struttura, a rappresentare la costante ciclicità delle azioni, questo film ha delle intuizioni notevolissime e sequenze da ricordare come la prima invocazione a Mefistifele.
Questo è a mio avviso il capolavoro di Svankmajer, il suo film più geniale, complesso e affascinante. Essenziale è il dialogo fra il protagonista-Faust e Mefistofele, venuto a trovarlo in camerino in una pausa dello spettacolo, essendosi ormai fuse la dimensione reale e quella finzionale: quando l'impiegato-Faust, recitando la parte, chiederà a Mefistofele "adesso cerco la forza, la ragione che governa la vita, e non solo nel suo aspetto esteriore", questi gli risponderà che l'uomo può conoscere soltanto "i pensieri che il linguaggio può esprimere", e che alcune cose travalicano i limiti della parola; Faust replica "e il desiderio e l'affetto, l'afflizione e il dolore? Non posso descriverli, ma li sento nel petto", e Mefistofele risponde: " non hanno sostanza, come la nebbia", e Faust: "dunque anche l'uomo è solo aria..."; poco dopo il diavolo svelerà a Faust che gli manca l'ingegno per vedere "il cuore e l'anima della natura in ogni singolo filo d'erba". Insomma, la conoscenza è un'illusione creata dal linguaggio in quanto l'uomo può conoscere solo mediante esso e le rappresentazioni fittizie che questo produce, oltre il linguaggio non c'è nulla, c'è solo la natura come mens momentanea, come generazione spontanea e istantanea, priva di un progetto; o ancora meglio, al di la del linguaggio c'è solo l'eterno ritorno dell'identico, in cui tutto si ripete all'infinito tornando uguale a sè stesso (anzi: eternamente "spostato" da sè stesso, sempre differente da sè). La stessa recita cui il protagonista prende parte è la riproposizione di qualcosa che è già accaduto e che continuerà ad accadere in eterno, e che l'uomo non fa altro che ripetere di volta in volta automaticamente credendo di esserne il soggetto, mentre invece ne è solo attraversato; i fantasmi che si presentano al protagonista sotto forma di burattini, giocattoli vuoti che ripetono la loro parte meccanicamente (e non troppo differenti da quelli di Alice, il precedente lungometraggio del regista), non sono altro che i simulacri dell'eterno ritorno, i fantasmi prodotti dall'eterno ripetersi dello stesso. Il Mefistofele di Svankmajer dunque, è proprio il demone dell'eterno ritorno, una sorta di Dioniso nietzscheano, come sembrerebbe confermare anche la scena dell'invocazione di quest'ultimo, pronunciata dall'interno di un cerchio disegnato per terra, e durante la quale vediamo mutare più volte il paesaggio attorno al protagonista, come se in quel momento egli passasse attraverso tutte le infinite volte in cui quella scena si è ripetuta. Nell'eterno ritorno però, tutto si ripete ma in maniera sempre differente da sè stessa, nulla torna identico a sè e quindi nessuna identità, nessun Io sopravvive; per questo assisteremo alla progressiva frammentazione del protagonista, prima quella del suo Io, che si scinderà in tanti piccoli Io quante sono le parti da recitare e le realtà che si vengono a sovrapporre, alla fine addirittura, frammentazione corporea. (P.S.: onde evitare accuse di plagio e copia e incolla, premetto subito di essere lo stesso utente del sito www.film.tv.it che ha scritto questa recensione).
Il secondo film di Svankmajer è una rivisitazione personale del Faust. Come per Alice anche in questo film il geniale regista ricorre a surrealismo,stop-motion e ambientazioni squallide ma particolari. Tra uomini che rubano gambe,burattini e rime direi che ancora una volta Svankmajer si dimostra geniale in alcune scene ma troppo monotono in altre. Mi mancano altri tre lungometraggi e mi aspetto un capolavoro da qualcuno dei prossimi,comunque,visti i commenti. Peccato che anche questo Faust,come d'altronde tutti i film del regista,sia irriperibile nel mercato dvd italiano e bisogna arrangiarsi come si può. Ne vale sempre la pena anche se mi rendo conto che lo stile di Svankmajer può anche non essere digerito.