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Il 2021 per Ridley Scott è stato il riassunto della sua carriera costantemente altalenante: da una parte film a lui affini, per genere o costruzione visiva, con tematiche intimiste e, sostanzialmente, riusciti; dall'altra film che potrebbe dirigere chiunque, richiesti da Hollywood e, artisticamente, falliti. Se alla prima categoria appartiene The Last Duel, alla seconda appartiene inevitabilmente House of Gucci. Si sta parlando di un film biografico che freme di aprire il guardaroba del suo sfavillante vestiario per uscire sulle strade milanesi ed essere ospitato nelle ville borghesi italiane, una descrizione che dovrebbe già far intuire tutto, dalle capacità auto-promozionali del film alle possibilità di essere protagonista alla serata degli Oscar. Non si tratta di una commediola americana alla "Il Diavolo Veste Prada", ma di una produzione molto più furba, che scrive il ruolo di Patrizia Reggiani come fosse un personaggio alla Jennifer Lawrence, un personaggio originale dieci anni fa ma che al pubblico e alla critica finto-intellettuale americani, chissà, magari piace ancora. E' triste vedere Ridley Scott indossare i panni di un qualunque David O. Russell mentre dirige il suo personalissimo "American Hustle", come fosse un hipster che confonde il frizzante con l'arte, quando in realtà di tratta di un regista di 84 anni capace di portare un genere da lui inventato al suo apice, e per giunta lo stesso anno. Il film vorrebbe raccontare la vacuità, l'assenza di spirito, l'assenza di arte e il pressappochismo del marchio Gucci, ma mentre si perde nei dialoghi pulp e privi di profondità dei suoi protagonisti, sembra raccontare la vacuità, l'assenza di spirito, l'assenza di arte e il pressappochismo di sé stesso. "Un'operetta da quattro soldi" viene definito il marchio Gucci in una scena del film. Sulle note di una banalissima colonna sonora, che usa Pavarotti come lo userebbe un borghese che non capisce nulla di arte, possiamo usare la stessa definizione per questo film.