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Ozu a colori. Vorrei cominciare commentando proprio questo aspetto, forse non davvero fondamentale.
Sappiamo come, per molti altri grandi registi giapponesi del passato, l'approdo al colore sia stato felice, ed abbia offerto nuovi spunti e suggerito inediti veicoli espressivi. Se penso a Kurosawa, per esempio, e ai suoi cromatismi forti, incisivi, d'elevata visionarietà, in opere come "Sogni" e soprattutto "Ran"; se penso a Mizoguchi, che si riscoprì pittore raffinatissimo, e alle tinte incantevoli del suo "L’imperatrice Yang-Kwei-Fei"; se penso a "La ballata di Narayama" di Kinoshita, in cui i colori sono protagonisti al pari dei personaggi; constato come in Ozu le tinte non abbiamo aggiunto nulla; ed anzi come meglio s'adattava il bianco e nero alla pacatezza del suo cinema - e al grigiore degli ambienti, e ai suoi personaggi dimessi perché "normali", e alla sua prosa fatta d'inquadrature statiche, essenziali, rasoterra dagli angoli dei locali - allora quella al colore può apparire come un'ulteriore rinuncia. Rinuncia allo spettacolo, rinuncia al movimento, rinuncia alla felicità; e intanto conquista di un'umiltà e di un rigore senza pari.
Per il resto, è il solito grande amaro racconto alla Ozu. Una nuova pagina sui rapporti famigliari, pregna di quella rassegnazione alla quotidianità e alle leggi degli eventi che sta al centro di tutta la sua opera; all'appressarsi della vecchiaia, all'ampliarsi della solitudine, e alle difficili e mutevoli corrispondenze tra genitori e figli nella società moderna.
Bello, sempre profondamente sentimentale e sensibile, ma a mio parere non ai livelli dei suoi capolavori.