i racconti della luna pallida d'agosto regia di Kenji Mizoguchi Giappone 1953
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i racconti della luna pallida d'agosto (1953)

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locandina del film I RACCONTI DELLA LUNA PALLIDA D'AGOSTO

Titolo Originale: UGETSU MONOGATARI

RegiaKenji Mizoguchi

InterpretiSakae Ozawa, Kinuyo Tanaka, Masayuki Mori, Machiko Kyo

Durata: h 1.37
NazionalitàGiappone 1953
Generedrammatico
Al cinema nel Novembre 1953

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Trama del film I racconti della luna pallida d'agosto

Tratto dai racconti "L'albergo" di Asaji e "La lubricità del serpente" di Akinari, un capolavoro della storia del cinema. Nel Giappone del XVI secolo, un contadino (Ozawa) e un vasaio (Mori) abbandonano il loro lavoro e le rispettive famiglie per andare incontro alla gloria. Mentre gli eserciti imperiali si scontrano, uno viene sedotto da una malefica e bellissima principessa, l'altro ambisce alla statura eroica del samurai. Quando torneranno a casa, tutte le illusioni cadranno.

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Voto Visitatori:   9,17 / 10 (33 voti)9,17Grafico
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Voti e commenti su I racconti della luna pallida d'agosto, 33 opinioni inserite

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kafka62  @  16/05/2018 10:23:15
   9 / 10
Nonostante la sua derivazione letteraria (il soggetto è tratto da alcuni racconti popolari di Akinari Ueda), il suo andamento picaresco, la sua struttura frammentata e apparentemente centrifuga, "I racconti della luna pallida di agosto" è un film profondamente, inconfondibilmente mizoguchiano. Anche se sono le avventure dei due vasai Genjuro e Tobei ad avere il maggior spazio narrativo, al suo centro c'è infatti, autentica guida spirituale e saggia depositaria della morale del regista, ancora e soltanto lei: la donna. Per questo ennesimo excursus sulla condizione femminile nella società giapponese, Mizoguchi sceglie di smembrare la figura classica dell'eroina in due personaggi diversi ma tra loro complementari: quello di Miyagi, il quale incarna l'aspirazione a un solido nucleo di valori e di ideali – la famiglia, il lavoro, l'umile accettazione della propria condizione – come unico antidoto contro la barbarie e l'irrazionalismo del mondo, e quello di Ohama, che è invece la donna incolpevolmente destinata, come tante altre "donne galanti" di Mizoguchi, alla caduta, alla perdizione e al peccato. Sia Miyagi (uccisa da un gruppo di soldati ubriachi) che Ohama (stuprata paradossalmente proprio da coloro – i samurai – le cui gesta lo sciocco marito invidia e intende emulare) finiscono col diventare, emblematicamente, martiri innocenti della società maschilista, costrette come sono a soggiacere alla brutalità e allo sciovinismo di un sistema che si ostina a trattare la donna alla stregua di un oggetto di piacere e di possesso o a relegarla nel migliore dei casi al riduttivo ruolo di procreatrice. Al cospetto degli uomini, irrimediabilmente stupidi e vanagloriosi (come Tobei, personaggio ai limiti della caricatura, la cui unica ragione di vita è quella di procurarsi un'armatura e una lancia per diventare samurai) o accecati dai sogni di ricchezza e dalle lusinghe dell'eros (come Genjuro, che prima lascia la moglie e il figlio soli al villaggio per precipitarsi a vendere la sua merce nella lontana città, e poi si innamora perdutamente di una donna misteriosa e bellissima), persino la principessa Wakasa, incarnazione di uno spirito diabolico, merita una considerazione e un rispetto maggiori: in fondo anche lei, fantasma appassionato che rincorre il suo legittimo sogno di amore ingiustamente negatole in vita, è, non diversamente da Miyagi e Ohama, una vittima della violenza e della fallocratica ipocrisia insite nelle relazioni umane e nella struttura sociale. Più che la condanna della guerra o la critica della società giapponese (le quali sono comunque presenti e molto sentite dall'autore), interessa a Mizoguchi evidenziare l'ineluttabilità, l'ontologicità della miserrima condizione della donna (non importa se del passato o del presente), e vagheggiare per contrasto, nostalgicamente, un ideale di felicità legato al ritorno alle radici e alla terra (che non a caso rimanda simbolicamente alla fertilità femminile e alla figura della madre).
"Il faut cultiver notre jardin" sosteneva Voltaire nel suo "Candide", e in fondo "I racconti della luna pallida di agosto" è anche una sorta di "Candido" in versione orientale, in cui la tragica e dolente visione mizoguchiana della vita sostituisce il pungente sarcasmo dello scrittore illuminista francese. Ma la filosofia di Mizoguchi, nonostante tutto, finisce per lasciare abbastanza freddi e insoddisfatti, tanto risulta genericamente passatista e antistorica (o forse sarebbe meglio dire a-storica), venata di un inoffensivo populismo alla Manzoni e inguaribilmente schematica da un punto di vista sociologico. Una qualche modernità il film la riacquista solo nella sua tendenza (peraltro non evidentissima) alla autoriflessività, laddove nel mestiere del vasaio Genjuro Mizoguchi adombra un discorso sull'arte e sulla creazione artistica. Nell'atteggiamento di Genjuro verso i suoi oggetti ("In essi sono rinchiusi i sogni della vostra anima" gli dice la principessa) si indovina in fondo l'orgoglio del regista nei confronti delle sue opere, la sua ansia instancabile di perfezione e la sua oscillazione tra un'aristocratica alterità e l'aspirazione a un consenso il più possibile universale.
Se "I racconti della luna pallida di agosto" è (a mio avviso indiscutibilmente, ma c'è chi gli preferisce "La vita di O-Haru") il miglior film di Kenji Mizoguchi non è però in virtù di quanto detto finora, bensì per l'incomparabile valore estetico che contraddistingue ogni sua singola inquadratura. Tra i massimi estimatori dell'opera c'è, non a caso, Alexandre Astruc, che proprio in quegli anni rivendicava per il regista cinematografico le stesse libertà tematiche ed espressive dell'autore letterario. In fondo, il concetto di caméra stylo ben si adatta alla grande mobilità della macchina da presa di Mizoguchi. Stando ben attento a non abbandonarsi mai a virtuosismi stilistici gratuiti o a freddi giochini d'alto manierismo, il regista giapponese tende costantemente a realizzare un grado di perfezione dell'inquadratura che oserei definire "pittorico". Personaggi e oggetti si collocano entro i margini del "quadro" in maniera non casuale né immotivata, bensì in un equilibrio armonico di piani e di forme, di linee e di volumi, di pieni e di vuoti, cui non è estranea, a mio avviso, la secolare tradizione del teatro Nô. Questi "quadri" non sono per nulla statici, ma cambiano in continuazione con i movimenti delle figure in campo ed il mutare delle condizioni di illuminazione. E' in questo che Mizoguchi si dimostra davvero un maestro: la sua camera non dà mai l'impressione di rincorrere i personaggi, ma sembra preparar loro la scena, anticipandone in maniera quasi inavvertibile gli incessanti spostamenti. Sequenze come i delicati terzetti all'interno del palazzo principesco tra Genjuro, Wakasa e la governante di quest'ultima fanno intuire a un occhio attento il meticolosissimo lavoro di organizzazione spaziale e di direzione degli attori che sta dietro a ogni inquadratura. Per garantire in ogni momento il perfetto equilibrio plastico, il rispetto delle proporzioni e delle simmetrie e i corretti valori cromatici delle scene, i movimenti di macchina sono molto elaborati, anche quando magari si risolvono in piccolissimi aggiustamenti o cambiamenti di prospettiva. Certi carrelli creano, ad esempio, ragguardevoli effetti a scoprire: nel sogno ad occhi aperti di Genjuro, la macchina da presa carrella all'indietro seguendo il passaggio della moglie dalla semi-oscurità alla luce del sole, e contemporaneamente allarga l'inquadratura fino a farvi entrare entrambi i coniugi davanti alla esposizione delle sete preziose. In modo non del tutto dissimile, Mizoguchi usa altri artifici tecnici per contestualizzare la scena, cioè per calare i personaggi nella loro cornice socio-ambientale, come fa alla fine del film con la gru che dalla tomba di Miyagi si alza ad inquadrare i campi del villaggio oppure con quell'altra gru che dapprima riprende dall'alto una affollata via cittadina, quindi scende lentamente in mezzo alla gente fino ad arrivare a inquadrare (con un bel passaggio dal generale al particolare) i nostri eroi intenti a vendere la loro merce. Gli ambienti, in generale, sono tutti caratterizzati con estrema precisione. Per farlo, il regista ricorre spesso a una originale dialettica immagine / suono: così, lugubri colpi di tamburo accompagnano la traversata del lago in barca e il viaggio di Genjuro alla volta del palazzo della principessa, tintinnii irreali risuonano nella residenza di Wakasa, mentre una musica tra l'estatico e l'elegiaco (campanellini, motivi favolistici) fa da contrappunto al sogno ad occhi aperti di Genjuro e alla scena del suo ritorno a casa.
Dalle gru e dai carrelli, di cui si è parlato più sopra, ai piani sequenza, per i quali Mizoguchi è giustamente famoso, il passo è breve. Se è vero che il regista ottiene risultati sorprendenti anche con la macchina immobile, specie se collocata al livello del terreno o dell'acqua (basti pensare alla meravigliosa scena, ripresa a filo d'acqua, in cui l'imbarcazione dei quattro protagonisti – con la silhouette di Ohama al remo che oscilla flessuosamente – emerge lentamente dalla nebbia del lago, in un'atmosfera sospesa e rarefatta), sono proprio questi ultimi a regalare i momenti più belli dell'intero film. In una lunga, accuratissima scena, ad esempio, la macchina da presa dapprima riprende in primo piano Miyagi che assiste a degli episodi di violenza perpetrati fuori campo dai soldati; mentre la donna, spaventata, si allontana nascondendosi tra il fieno, la cinepresa si sposta a inquadrare i soldati che fanno irruzione nella casa per abbandonarla subito dopo; infine, una vecchia che entra in campo dirigendosi verso Miyagi per invitarla a lasciare il villaggio, chiude il cerchio e ci riporta in un certo senso al punto di partenza, il tutto senza che vi sia stato alcuno stacco. Grazie all'uso sistematico della profondità di campo (quando poco dopo Miyagi, colpita a morte, agonizza, sullo sfondo si vedono distintamente i soldati ubriachi allontanarsi) e alla qualità della fotografia (giochi di ombre e di luci, chiaroscuri, cambiamenti di illuminazione dovuti all'entrata in scena di nuove fonti di luce, ecc.), Mizoguchi riesce a dare a questa e ad altre sequenze una varietà di modulazione incredibile. La duttilità e la fluidità delle sue sequenze rivelano anche che, nonostante l'andamento lento ed elaborato, Mizoguchi è perfettamente padrone dell'arte dell'ellissi narrativa. In un caso, poi, il regista giapponese cerca addirittura (cosa che non mi sembra appartenere alle sue abitudini stilistiche) di creare ellitticamente una (falsa) impressione di continuità, fondendo tra loro inquadrature distinte: così, dall'interno del palazzo si passa, con uno stacco impercettibile, al bosco con il laghetto e da qui, seguendo l'acqua che scende in mezzo all'erba, ci si ritrova, altrettanto impercettibilmente (e funzionalmente alla natura fantastica del contesto) nel prato in cui si sta consumando l'idillio tra i due amanti.
Il discorso investe qui, direi quasi inevitabilmente, l'uso della tecnica cinematografica per suscitare emozioni e sentimenti profondi: il piano sequenza in cui è racchiusa la dolorosa riconciliazione tra Tobei e Ohama all'esterno del bordello, ad esempio, dà, proprio per il fatto di essere costruita in un unico blocco, una fortissima impressione di disperazione (di cui i piedi di Ohama che scavano furiosamente la terra costituiscono una splendida sintesi). In un film giocato su più piani paralleli (reale / fantastico, naturale / soprannaturale), Mizoguchi riesce inoltre nel miracolo di fare coesistere tutti questi piani l'uno accanto all'altro, nella maniera più naturale possibile. Emblematica è la scena in cui Genjuro, novello Ulisse, ritorna a casa, dopo essere sfuggito al maleficio di Wakasa. Ad aspettarlo non c'è però nessuna Penelope, la casa è malinconicamente vuota e abbandonata. Genjuro esce, fa il giro della costruzione, mentre la macchina da presa lo segue dall'interno in piano sequenza. Quando rientra dall'altra parte, accade il miracolo: tutto è tornato normale, come una volta; Miyagi accoglie festosamente il marito (anche se noi sappiamo che ella è solo un fantasma), il figlio dorme serenamente in un angolo, la pentola con la minestra bolle sul fuoco. Per una notte, l'ultima, a Genjuro è concesso di godere del dolce tepore del nido familiare, vegliato dalla sua consorte-angelo custode (è commovente come, addormentatosi il marito, Miyagi compia, prima di andarsene definitivamente, i consueti, piccoli gesti di moglie e di madre, come rammendare con ago e filo o togliere la polvere dalle pantofole). Il resto, fino alla fine, ha un sapore fastidiosamente moralistico, ma questa sequenza resta uno di quei rari casi in cui né la letteratura, né la musica, né la pittura sono in grado di ottenere effetti di pari suggestione: grazie a registi come Mizoguchi, il cinema può vantare la più completa e indiscussa autonomia nei confronti delle altre, assai più considerate, forme di espressione artistica, e concede anche a distanza di tanti anni, agli occhi non ancora rovinati dalla omologazione e dall'appiattimento televisivi, un piacere unico, raffinato e irripetibile.

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