Il film racconta la dolorosa vicenda della strage di Sant'Anna di Stazzema, paesello della Toscana dove i soldati americani combatterono contro i nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale.
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Ok, il cinema bellico sta cercando disperatamente di uscire dagli schemi o di affiliarsi dal "sensazionalismo": dopo l'insuperabile "Letters from Iwo Jima" di Eastwood (ma in questo caso farà fede il pur incoerente "Flags of our feathers") a dirci tutto questo diventa il respiro, insolitamente universale, di Spike Lee, colto a tramandare i furori razziali nel terreno bellico, fuori (apparentemente) dal monolitismo urbano del passato. E' una "fuga" che cerca di riabilitare e colmare l'assenza dagli schermi della figura afroamericana nella seconda guerra mondiale (e lo stesso bestiario caratteriale dei soldati bianchi divisi in tipologie umane) ma trova il suo percorso in un film dilatato, romanzato, smaccatamente fiabesco, con qualche frammento che cita il Mattatoio 5 di Vonnegut: quel che preoccupa però è l'approccio stilistico del regista, che sembra rileggere Spielberg con lo stesso spirito del nostro Benigni ("La vita è bella"). Un disincanto ora grandissimo, ora furbo, certo del tutto arbitrario davanti all'impegno che reclama allo spettatore per vederlo: contrariamente alla parabola di Angelo e dei tanti "children in war" che affastellano il cinema da decenni a questa parte.
Il risultato è a dir poco spiazzante, ma con diversi momenti sublimi: la sequenza iniziale, con la voce della "nemica" tedesca che si diffonde per tutto il campo (a sfidare i clichè correnti sulla virilità dell'uomo nero tanto per intenderci) e soprattutto l'eccidio di massa davanti alla chiesa: basterebbero queste due sequenze per consegnare il film alla storia. Però...
Però pur con la consapevolezza di un Lee finalmente libero (almeno geograficamente) dai suoi schemi consueti, è pur sempre un regista americano colto a raccontare la Resistenza italiana (enfatizzo il suo significato non le doverose luci e ombre...) con una spudoratezza stilistica piuttosto sconcertante. Si avverte del manierismo, anche se il realismo finale quasi annienta la novella spirituale della vicenda, e la favola morale finisce per persuadere lo spettatore che si debba a tutti i costi raccontare il dramma della guerra facendo della poesia anche gratuita (v . l'ossessione quasi coercitiva di volerci commuovere nell'epilogo finale). Forse di questi tempi adattare la realtà ai tempi alle cadenze e al linguaggio di un romanzo è un atto di coraggio: ma tra 5 e 10 è doveroso tagliare a metà, con tanti saluti all'"uomo che dorme"