kafka62 8½ / 10 26/01/2018 11:35:57 » Rispondi "Credevo che fosse una cosa buffa… E' terribile!". Questa battuta, pronunciata da uno dei sette amici che, seduti a un tavolo del Carnegie Delicatessen Restaurant, stanno rievocando la tragicomica storia di Danny Rose, è il miglior commento che si possa fare al film di Woody Allen. Broadway Danny Rose, infatti, è fondamentalmente una commedia, la quale sforna gags visive e verbali a getto continuo e presenta situazioni parodistiche (la festa italo-americana, ad esempio, prende garbatamente in giro – anche se in maniera un po' stereotipata – le solenni riunioni familiari descritte ne Il padrino, mentre la visita all'indovina è una ironica citazione di Ladri di biciclette) e sequenze in puro stile slapstick; eppure il regista, per la prima volta nella sua filmografia (anche se gli ibridi precedenti di Manhattan e Zelig erano stati delle eloquenti avvisaglie in tal senso), vi innesta non trascurabili elementi di riflessione, di nostalgia e di scoperta malinconia. Danny è uno dei tanti schlemiel falliti che popolano le pellicole di Allen, e quest'ultimo si diverte a mettere in ridicolo le sue idiosincrasie linguistiche (la ripetizione ossessiva di espressioni come "Mi sente Dio!", "Questa è Bibbia!" o "Vorrei interporre un concetto") e comportamentali (l'insopprimibile abitudine – tipica degli entertainers – di mettere a loro agio e ingraziarsi le persone fingendo interessamento per loro e facendo complimenti ruffiani, oppure il tormentone degli zii, cugini e parenti vari chiamati continuamente in causa per citare aforismi e massime di filosofia spicciola), ma il suo personaggio assurge a un valore che va ben al di là dell'immediato impatto comico. Il laico Woody Allen non è mai stato infatti così "religioso" come in questa storia "in minore" di un piccolo impresario che si fa in quattro per trovare una scrittura a quella autentica "corte dei miracoli" dei suoi clienti (xilofonisti ciechi, ballerini di tip tap con una gamba sola, giocolieri monchi e ventriloqui balbuzienti) e che considera "perdono, comprensione e amore" i tre fondamentali comandamenti della vita di un uomo. Tutti i grandi temi dell'esistenza (il Bene e il Male, la responsabilità dell'individuo nei confronti delle proprie azioni, la colpa e il pentimento, la gioia e la sofferenza) si concentrano in una trama esile, in cui più delle picaresche avventure di Danny e Tina conta lo scontro dialettico tra le loro opposte concezioni di vita, l'una improntata al sacrificio, alla dedizione verso il prossimo, alla considerazione che alla fine tutti "dobbiamo rendere conto al Grande Impresario", l'altra invece cinica e amorale, preoccupata di prendere dalla vita tutto ciò che è possibile "prima che te lo freghino gli altri". Il fatto che Danny sia destinato a uno sconsolante fallimento (anche se va detto che il finale lascia aperto uno spiraglio alla speranza) vena la seconda parte del film di un sottile e acuto senso di tristezza, e prepara in un certo senso la strada ad altri famosi "sconfitti" alleniani, come la Cecilia de La rosa purpurea del Cairo o il Clifford di Crimini e misfatti. L'idea di far raccontare la storia a distanza di vari anni da un gruppo di uomini di spettacolo (il loro bavardage, orchestrato con evidente affettuosità dal regista, è tra le cose più belle del film) trasferisce il personaggio di Danny Rose sul piano della leggenda e del mito, con ciò distanziandolo emotivamente ed evitando ogni possibile tentazione melodrammatica. Tutta la sceneggiatura concorre del resto a stemperare in un controcanto ironico o semplicemente paradossale gli episodi più tristi: così, subito dopo esser stato tradito da Lou, il frastornato Danny scopre di essere stato a sua volta la causa di un'altra sciagura, quella occorsa all'amico ventriloquo (da lui denunciato ai mafiosi perché erroneamente creduto al sicuro fuori degli Stati Uniti). Il film si fa inoltre apprezzare per la sua fluidità di racconto (non è mai stato reso il dovuto riconoscimento alla suprema abilità dimostrata da Woody Allen nello "sforbiciare" i suoi film, cioè nel tagliare ed eliminare le scene non essenziali) e per la sua leggerezza (che molti hanno a torto interpretato in senso limitativo). Allen non esita a ricorrere per questo ai generi più umili e popolari, dalla parodia (in particolare dei film del neorealismo e della sagra coppoliana di Little Italy) al cinema di avventura (la caccia dei killer, il rapimento, la fuga), dalla commedia degli equivoci (Danny viene scambiato ingiustamente per l'amante di Tina) al fumetto (nel capannone dei carri allegorici i personaggi, a causa del gas diffusosi nell'aria, parlano come dei cartoni animati). Il risultato è un film dal ritmo impeccabile, che non concede pause né vuoti narrativi (gli unici nei sono forse il ricorso un po' artificioso ad un flashback nel flashback – quando si viene a sapere che Tina, prima di conoscere Danny, ha persuaso Lou a cambiare manager – e l'impaccio con cui viene raccontato nel finale l'evolversi della crisi spirituale della donna), con dialoghi calibratissimi nella loro logorroicità e battute spesso fulminanti ("A mio marito gli spararono in mezzo agli occhi." "Come? E' cieco?"; oppure: "Siamo in due contro uno!" "Sì, ma lasciati ricordare che ha l'accetta… perciò siamo due, ma ci fa subito quattro.") e con un personaggio, quello di Mia Farrow, tanto più splendido quanto più distante dallo standard consueto dell'attrice (è molto difficile immaginare la Farrow nei panni ruvidi di una donna isterica e aggressiva, con una voluminosa parrucca bionda ed occhialoni neri al viso). Come regista, Woody Allen non ha uno stile molto appariscente, anche se i suoi insistiti carrelli a seguire i personaggi deambulanti conferiscono agli esterni, e soprattutto ai paesaggi metropolitani a lui così cari (strade, quartieri, edifici), un grande interesse cinematografico. Il merito maggiore di Allen consiste a mio avviso nella capacità di valorizzare al meglio gli elementi pro-filmici a sua disposizione: la musica (le divertenti canzoni italo-americane, soprattutto quella dei titoli di testa che fa anche da tema conduttore del film, connotano benissimo personaggi e situazioni), gli ambienti (mai casuali, ma sempre scelti in modo da restituire una impressione forte e non superficiale dei luoghi in cui i personaggi si muovono, al punto da diventare essi stessi protagonisti della storia), le scenografie e gli arredamenti (accuratissimi e sempre in sintonia con il ruolo ed il carattere dei personaggi, a dimostrazione del perfezionismo del regista e della sua abilità nel farsi circondare sempre dai collaboratori migliori). La macchina da presa si muove poco, ma Allen (che privilegia i piani sequenza all'avvicendamento tradizionale dei piani) organizza così meticolosamente la messa in scena da creare un raro e perfetto equilibrio tra la tecnica e la rappresentazione, ossia, per dirla in parole povere, tra ciò che rimane al di qua dell'obiettivo e ciò che sta invece davanti, al di là di esso.