kafka62 9 / 10 28/02/2018 10:33:32 » Rispondi "Chinatown" è a prima vista un abile esercizio di mimetismo cinefilico, ai limiti della filologia: il filone oggetto di rivisitazione è il cinema "nero" degli anni 40, a sua volta derivato dai romanzi dei vari Chandler, Hammett e Spillane. A differenza del contemporaneo "Il lungo addio" di Altman, che scopertamente si propone di smitizzare e demistificare il genere ambientando il romanzo chandleriano ai nostri giorni e facendo di Marlowe un antieroe con debolezze, ambiguità e nevrosi decisamente moderne, Polanski tende apparentemente a far scomparire l'individualità registica in favore di una fedeltà stilistica e iconografica alla tradizione. Ma, a ben vedere, anche questa è solo un'impressione di superficie, tanto è vero che tra i due film si possono riscontrare più punti in comune di quanto si tenda solitamente a credere. Ma procediamo con ordine. Anzitutto la trama, a parte una maggiore modernità nella scelta degli ingredienti (poca avventura e molto realismo: l'intrigo è decisamente politico e ruota intorno a prosaiche speculazioni immobiliari a danno di piccoli agricoltori locali), potrebbe essere scambiata a grandi linee per quella di uno script chandleriano. Ciò che la differenzia veramente da quest'ultima è la sua morale: mentre nei film del passato il protagonista affrontava sì una realtà vile e corrotta che lo feriva nei suoi sentimenti più profondi, ma riusciva alla fine a portare a termine la sua missione e a far trionfare, insieme alla sua orgogliosa solitudine, anche la sua superiorità nei confronti di un mondo con cui non è possibile scendere a patti, in una contrapposizione radicalmente manichea (e quindi tutto sommato rassicurante per lo spettatore), in "Chinatown" (e anche ne "Il lungo addio") l'eroe è invece fragile e impotente, fatalmente perdente di fronte a un Male che tende ad assumere caratteri di tentacolare voracità. Come scrive La Polla ("Il nuovo cinema americano", pag. 148), "Chinatown non è semplice racconto di una sporca storia di interessi economici, ma un affresco della capacità che il capitale ha di sfruttare ai suoi fini persino la vecchiaia e la morte (i vecchi della casa di riposo), della sua autonomia endogamica (l'incesto di Noah con la figlia e il morboso rapporto che lo lega alla figlia-nipote), della sua corrotta onnipotenza («E' sua la polizia!» grida Mrs. Mulwray a Jake che invoca la legge). Quel che colpisce nel film è il senso di inevitabilità, di destino che lo percorre dall'inizio alla fine". Come in un racconto borgesiano in cui la storia umana tende a ripetersi all'infinito, così anche in "Chinatown" il finale è già scritto nel doloroso passato del detective Gittes: ancora una volta, come tanti anni prima, la donna amata muore davanti ai suoi occhi, senza che egli possa far nulla per salvarla (*). Chinatown, il famigerato quartiere cinese in cui avviene la definitiva resa dei conti, simboleggia l'ennesimo trionfo del Male sul Bene; non solo, ma la gru finale che si alza sulla strada notturna, come ad abbracciare nella visione l'intera Los Angeles, sembra suggerire che Chinatown è il mondo intero, senza alcuna possibilità di redenzione o di salvezza. Polanski, il quale – è bene ricordarlo – ha ostinatamente rifiutato l'happy end caldeggiato dallo sceneggiatore, è qui di un nichilismo agghiacciante. La reiterazione dell'esperienza personale del protagonista non fa che aumentare le proporzioni della sua sconfitta, conferendogli una dimensione tragica che i suoi predecessori non avevano. Come il Marlowe di Altman, il quale veniva crudelmente tradito dal suo miglior amico (ma aveva almeno la possibilità di un gesto estremo di ribellione), così il Gittes di Polanski è costretto ad assistere al crollo delle istanze di giustizia e verità in cui crede. Entrambi assumono quindi una inusitata (e originalissima) valenza esistenziale, che capovolge l'apparente perizia e sicurezza con cui si muovono attraverso le insidie della loro professione. Jack Nicholson (giunto, dopo "Cinque pezzi facili", alla migliore interpretazione della sua carriera) non è meno abile, fascinoso e brillante dell'Humphrey Bogart de "Il grande sonno", ma, rispetto all'originale, il suo idealismo appare anacronistico e senza senso, come il suo sottile cinismo sembra percepire con disillusa evidenza. La distanza di J.J. Gittes dagli eroi classici del genere è inoltre segnata da una geniale e iconoclasta trovata del regista: quella di sfregiare il volto del divo hollywoodiano (è Polanski stesso a fare la parte del sadico sgherro) e di costringerlo ad apparire per una buona metà del film con una antiestetica fasciatura al naso. E', questa, una delle poche libertà che Polanski si concede in un film che è memorabile soprattutto per l'equilibrio delle sue componenti tecniche, estetiche e narrative. Se da un lato lo stile di regia (movimenti di macchina poco appariscenti, tagli di inquadratura impeccabili) tende a una classica perfezione formale, e dall'altro la fotografia di Alonzo (che collaborerà anche a "Marlowe il poliziotto privato" di Richards) si propone come un modello figurativo del noir anni 70 (abbandono del bianco e nero, grande attenzione agli esterni e alla luce naturale – l'accecante sole della California -, pellicole sensibili che negli interni permettono di ridurre il ricorso alla illuminazione artificiale e di costruire, grazie ai fasci di luce che filtrano dalle onnipresenti veneziane, raffinati arabeschi in chiaroscuro), è la sceneggiatura di Robert Towne il vero punto di forza dell'opera. Towne costruisce un perfetto meccanismo giallo, elaborato e avvincente, un complicato domino i cui tasselli vengono a combaciare definitivamente solo alla fine (ma l'ambiguità non viene mai risolta del tutto: Noah Cross ha ucciso il genero per riuscire a costruire la diga oppure per riconquistare la figlia nata dall'incestuoso rapporto con Evelyn?). Oltre alla raffinatezza delle ellissi e dei raccordi, che ottimizzano l'avvicendamento degli alti e dei bassi emotivi della storia con il risultato di ottenere una tensione sempre ragguardevole, bisogna segnalare altresì l'abilità con la quale ad ogni elemento narrativo (anche quelli apparentemente più insignificanti: si pensi al personaggio di Curly con cui si apre il film, o al particolare dell'acqua salata nel laghetto del giardino di casa Mulwray) viene assegnata una precisa funzione semantica o semplicemente diegetica, così da rendere la vicenda un universo in sé perfettamente concluso e autosufficiente, in grado persino, per le sole peculiarità narratologiche del soggetto, di proporsi emblematicamente come singolare metafora politica ed esistenziale.
(*) Un altro presagio della tragedia conclusiva, che rafforza quanto verrà detto più avanti circa la non casualità di ogni pur piccolo elemento narrativo, è il colpo di clacson che Evelyn fa distrattamente suonare davanti alla casa della figlia e che anticipa la sequenza in cui la donna, raggiunta da un proiettile sparato dalla polizia, si accascia sul volante dell'automobile, facendo lungamente risuonare il clacson come un lugubre lamento di morte.