Terza opera di Bresson, l'ho trovato un film con diverse similitudini al suo esordio, sia per la tematica clericale che per il gioco di contrasti che si viene a creare tra il prete - nel caso dell'esordio era la suora - in buona fede e il resto della comunità che sembra non vederlo di buon occhio, allo stesso tempo si vedono le influenze di Dreyer, specie sulla tematica riguardante il rapporto tra fede e applicazione della stessa all'interno dell'istituzione ecclesiastica e un'influenza futura su alcune opere di Bergman - la trilogia del silenzio in particolare - in cui i personaggi andranno incontro a dilemmi simili a quelli del protagonista di questo film, il giovane curato di campagna che è in continua lotta, prima che con gli altri membri della comunità, con la sua stessa fede, è un film in cui vengono prepotentemente scandite le difficoltà della sua figura, è un cammino, già definito da altri, cristologico in cui il curato verrà messo costantemente alla prova, la fede innata viene sottolineata proprio dai brutti avvenimenti a cui va incontro, proprio dal non essere riconosciuta dagli altri membri, tra cui i suoi superiori stessi che per motivi abbastanza ignoti o effimeri sembrano non provare particolare stima per il protagonista, che però, proprio come una figura divina, cercherà in tutti i modi di ricambiare il male con il bene, anteponendo gli altri a se stesso, vi è anche la tematica del conflitto tra corpo e anima, se l'anima del curato sembra non risentire delle peripezie, il corpo da l'impressione di essere quello che assorbe tutto il male, le precarie condizioni di salute del prete, con la triste scoperta finale potrebbero non essere altro che il risultato del male che ha assimilato e non è riuscito a dissipare in nessun modo, una reazione che somatizza le paure, le titubanze, l'incertezza di un mondo che sembra non riconoscere, anzi sembra totalmente opporsi, alla sua figura di rappresentante della fede.
Bresson utilizza ancora uno stile minimale, seppur mi è sembrato leggermente più elaborato di quello delle sue prime due opere, con un saltuario uso della colonna sonora extradiegetica e il costante uso del narratore, che sarebbe lo stesso protagonista, in un flusso di coscienza che mette in evidenza tutte le angosce e i dubbi causati dalla sofferenza terrena, con lo stratagemma come suggerisce il titolo, del diario dove segna tutte le sue memorie, ma è un protagonista che sembra non rassegnarsi nonostante tutto, una sorta di santo, non riconosciuto, che però essendo umano rimane inconsapevole della sua condizione, e qui si torna a quello che chiedeva anche Dreyer, un santo per esserlo davvero ha bisogno del riconoscimento da parte dell'istituzione?
La regia è ispiratissima e tocca ottimi picchi semantici, dall'utilizzo dei primi piani atti a mettere sempre al centro il protagonista e sottolineare la natura profana di altre figure - basti vedere la figlia della contessa, inquadrata nel confessionale circondata dal buio, oltretutto, vi è pure una bellezza formale non indifferente - o la rappresentazione del buzzurro superiore ancorato a preconcetti dogmatici.
Nel complesso è un'opera di grande impatto che approfondisce il pensiero di Bresson sulla fede e sulla sua applicazione più pragmatica, dalle tendenze antropologiche e con una forte componente introspettiva data dal flusso di coscienza e dalle condizioni del prete, opera che mostra la grande maturazione del regista che continuerà a regalare altre pellicole straordinarie nel corso degli anni successivi.