williamdollace 9 / 10 09/02/2025 22:18:50 » Rispondi Inizio maestoso, sospeso tra gli anfratti bui di una nave e il cielo di Manhattan, un binomio che ritroveremo continuamente in questa opera, dagli edifici con spazi planimetrici angusti aperti alle vastità delle altezze fino al cielo fino alla connessione dell'anima che vogliono riprodurre, dai bassifondi verso l'alto. L'ambizione Monumentale di Brady Corbet è ripagata dall'opera che mette in campo, girata in 70 mm VistaVIsion, immersione TOTALE per essere coerente fino alle fine con gli anni che racconta, da cinefilo puro quale è. E la coerenza dell'opera la ritroviamo nelle opere di Laszlo Toth, architetture incorruttibili che a differenza dell'essere umano uomo non lasciano sconti, né nel concept e né nella realizzazione (non un metro di meno, non una variante in più). Un'assenza di compromessi totale, a partire dai 215 minuti con intervallo predisposto e scelto e programmato dallo stesso Corbet, che qui scrive insieme alla compagna. Le scene rasoterra o raso-rotaie che accentuano la velocità di apertura della vista con l'ouverture che insiste sono da pelle d'oca, degna dei film di Michael Mann. Così come tutto l'incipit (ship) fra l'europa e l'america. Ma Corbet ha un'estetica tutta sua, o da lontano, o da molto vicino, metafora dell'intera opera. Carrara è un paesaggio lunare, pietra materia prima e dolore, scavi e pertugi che ritroveremo nella cupola dell'edificio commissionato, tagli e lacrime che scendono come acqua sulle venature per risaltarle, come se fossero diversamente invisibili. E poi l'oppio che stipa un dolore narrante che ci si porta ovunque, per il passato, per il presente e per il futuro, motore derimente, eclissi del sé con il portamento del desiderio, memorabile l'amplesso sotto siringa dei protagonisti. Il Bauhaus è una lacrima che scende sugli articoli del passato, sui fabbricati che resistono alla guerra, concepiti come poesie in grado di salvarsi anche in mezzo a qualsiasi prosaico attacco bellico e naturale. È anche nei open titles e nei crediti, font massimalismo e segni pieni che concepiscono muraglie di concetto. Simbolismi, metafore, implosioni, carni corrotte che portano con sé anime pronte a convivere nell'eternité degli edifici composti, primari spazi pubblici piegati all'ego immaginifico, rabbia collera e spigoli da prendere in faccia, senza orrori se non nell'evocazione che ogni volta illuminano, sia a mezzogiorno che a mezzanotte nelle infrastrutture cementizie che si confrontano con la potenza evocativa dell'ignoto spazio profondo, cielo, libertà, incorruttibilità (al confronto con la vita terrestre, esiliata, piegata, sodomizzata). Il Mito americano è ostracizzato, reso esperienza politica da dimenticare, fra organismi che raccontano una corruzione dei cuori da cui rifuggire. Fantasmi si annidano nei letti sudati e fra le mura in cemento armato, fantasmi nei cessi e nelle cassaforme pronte per il getto, nelle feste organizzate, nel sesso, nel silenzio, nell'ambiguità di un credo religioso da trasformare in farsa, in luce in/credibile, da biglietto da visita da appartenenza, da cammino diretto, frontale, che mi scusi ma non si scuserà, perché il potere non si argina che con la verità sfacciata e brutale, così come vuole essere ogni edificio di Toth e ogni sequenza di Corbet.