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THE ACCOUNTANT 2 regia di Gavin O'Connor

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Invia una mail all'autore del commento williamdollace     8½ / 10  26/04/2025 13:23:30Nuova risposta dalla tua ultima visita » Rispondi
A tutti gli effetti il cinema di Gavin O'Connor ha un unico concept autoriale. Diceva Camus «c'è la bellezza e ci sono gli oppressi. E per quanto difficile possa essere, io vorrei essere fedele ad entrambi» per O'Connor questa bellezza è il ritmo e lo spettacolo e per gli oppressi ci sono i protagonisti dei suoi lungometraggi. Il contabile già nel primo capitolo aveva mostrato tutto il suo potenziale e le sue fragilità, la sua solitudine, il suo essere suo malgrado un underdog. Il protagonista Christian Wolff, interpretato da Ben Affleck, ha una forma di autismo ad alto funzionamento, lo capiamo da alcune caratteristiche: difficoltà nelle interazioni sociali, iper-focalizzazione su compiti complessi e schemi ripetuti o comunque logici, comportamenti ripetitivi e rituali, grandi e geniali capacità con numeri e schemi, cresciuto in modo severo dal padre per sopportare "la vita reale". Nel secondo capitolo lo ritroviamo 9 anni dopo, con un "esercito" di adolescenti tratti da situazioni difficili nell'istituto che lui foraggia con i proventi delle sue missioni, un esercito di disfunzionali ad alto funzionamento, quell'istituto dove restò anche lui da piccolo e che poi trasformò in una fucina di dimenticati dalla società, di accantonati, ma non per lui, essendo dotati ognuno di eccezionali abilità, come in primis la sua assistente che comunica con lui in remoto e lo guida. In questo capitolo il dipartimento del tesoro chiede l'aiuto di Wolff attraverso vie ufficiose in seguito all'assassinio di un amico, scoprendo una cospirazione molto più grande, e dove Chris chiederà l'aiuto del fratello "normale" che avevamo già conosciuto come mercenario per missione alla fine del primo capitolo. Brax (The Bear), che scopriremo solo anch'esso, nevrotico, irrisolto, che in un momento di fragilità e di intimità fra i due invoca la compagnia di un animale domestico nella sua vita, per avere qualcuno a cui pensare, per avere una famiglia. Nella spietata rete di asssassini con cui si troveranno a che fare avranno modo di scovare un'altra ennesima outsider, e con essa un altro personaggio a lei legato che qui non dirò, simboli di emarginazione e genialità, imprigionati in un ruolo e non solo, dimenticati. Come lo era anche Ben Affleck nel The Way Back di O'Connor, Jack Cunningham, vecchia promessa del basket il cui talento era stato messo da parte per una strada di autodistruzione, tra spettri di sconfitta, vecchi conflitti familiari e tragedie personali e lì la questione è come arrivavi alla fine del metaforico Quarto, se eri in grado di rialzarti dopo le spinte, se le costole avrebbero retto a tutte le gomitate, se il fegato spappolato e i polmoni avrebbero tenuto, se sarebbe riuscito a fare quella finta e quel tiro da 3, perché è lì che inizia, si svolge e finisce il film, *ricominciando*, e non si tratta di retorica della vincita ma del vivere, e per vivere devi esserci, nonostante il bancone del pub sia una enorme calamita che succhia e ingoia solitudini e dolore, ma c'è altro, non si può essere qualcun altro, ma si può essere chi sei, meglio di chi eri ieri, anche qui una storia di bellezza e oppressi, di redenzione e solitudine, di outsider. Diceva Sir John Brannox in The New Pope di Sorrentino: "il dolore non ha alcuna gerarchia. La sofferenza non è uno sport, non c'è una classifica finale. Tormentati dall'acne, dalla timidezza, dalle smagliature, dal disagio, dalla calvizie, dall'insicurezza, dall'anoressia e dalla bulimia, dall'obesità e dalla diversità. Ingiuriati per il colore della pelle, per le preferenze sessuali, per il portafoglio vuoto, per le menomazioni fisiche, per i nostri litigi con i nostri anziani, per i nostri mai consolabili pianti e per l'abisso della nostra insignificanza, per le caverne delle nostre perdite, per il vuoto dentro di noi, per il ricorrente, incurabile pensiero di farla finita." Sono questi i personaggi che vuole portare nel cuore del suo cinema Gavin O'Connor, un unicum di outsider che hanno l'opportunità della loro rivincita, di trovare il loro posto nel mondo, anche nella zona d'ombra in cui vivono per carattere o per circostanze. Ed eccoci al secondo capitolo del Contabile, all'occasione di Christian Wolff, la seconda, di dimostrare che si può superare l'anaffettività, l'indifferenza selettiva del mondo, le proprie rituali liturgie maniacali, la condanna alla solitudine, per vivere e per aiutare i propri simili, i figli amari, l'amico morto, l'agente Medina addestrata dall'Fbi, il fratello assassino, la killer Anaïs trasformata in una macchina da guerra dai soprusi, dalle violenze. Tutti soli, come tutti bambini da proteggere all'Harbor Neuroscience Institute, il suo esercito di simili, tutti interconnessi eppure tutti soli eppure insieme, collegati dalla stessa condizione di penitenza e disagio, alla ricerca di una vittoria, di uno squarcio nelle simmetrie delle vite perfette là fuori alla ricerca della normalità ma senza snaturarsi, infine, il messaggio, perché non è una questione di sette di comportamento, ma di vivere al meglio, di essere "meglio" nell'essere fatti così, perché l'umanità non si misura in azioni celebri, ma anche in funzionali silenzi, continuava John Brannox "d'ora in poi non tollereremo di essere definiti un problema. Perché a dire la verità il problema sono loro, noi siamo la soluzione. Noi che siamo stati traditi e abbandonati, scartati ed equivocati, messi da parte e sminuiti" ma d'ora in poi non lo tollereremo più, sembra dire il cinema di O'Connor.