williamdollace 9 / 10 12/08/2025 15:12:05 » Rispondi Dieci minuti di poesia tra malick e tarkovskij, questo è l'incipit con cui Carlos Reygadas apre il suo quarto lungometraggio, Post Tenebras Lux, miglior regia a Cannes, utilizzando come i due figli piccoli di Juan, i suoi figli, Rut ed Eleazar. Èd è Rut ad accogliere lo spettatore, che cammina con lei in una soggettiva "da bambino" alla sua altezza fra animali cani mucche e un temporale imminente, in dieci minuti di purezza estatica. La lente della macchina da presa, sfocata su ambo i lati, moltiplica i riflessi, i movimenti, proietta immagini alle periferie dei nostri occhi, le rende sferoidali, schizzate, amorfe. Juan e Natalia padre e madre di Rut ed Eleazar, Messico, Città e natura selvaggia, alternate, così come i suoi abitanti. Il tempo è annullato, nel senso che possiamo trovarci dopo un prima e prima di un dopo senza che ci debba essere segnalato, senza che questo abbia un significato da esprimere con date e ore. È un flusso avvolgente di nostalgia che disarciona perché si fa tappeto perenne, pattern onnipresente, la forma supera ogni sostanza, perché la sostanza di questo film è sinestetica, si procede per emozioni e non per azioni, sono le emozioni che stanno nella macchina da presa e con le quali bisogna lasciarsi andare, in 4:3, senza opporre resistenza, senza voler capire. La malinconia di Juan, la miseria di Seven, l'orgia a tema artistico in qualche parte dell'est (Duchamp ed Hegel), gli alberi tagliati (Tree of death) nella foresta, tutto è polverizzato visivamente, dilatato, bagnato dalla pioggia, oltre la percezione, squilibrato, biblico, quasi nella sua mistica esasperazione di stile. Espressionismo di silenzi e pause, fra sequenze dislocate nello spazio e nel tempo in modo brutale, il senso è un frammento, subito decapitato. Le sue ambiguità sono state viste come onanismo ma non c'è onanismo se i sempiterni angoli sfocati rappresentano più della nitidezza la vita stessa, slabbrata sdoppiata sfocata e spesso incomprensibile. E la bellezza sta nel continuo sfiorare l'indicibile.