Il buon Jafar Panahi torna dal carcere e realizza uno splendido dramma sull'Iran odierno, un film intensissimo emotivamente e pieno di riflessioni etiche, partendo da un incipit semplicissimo, quello di un uomo che riconosce il suo meschino torturatore durante il periodo di prigionia, tramite un suono a lui familiare, quello della gamba finta, amputata anni prima, dopo che si era fermato a chiedere aiuto per un guasto alla macchina, rapendolo e volendo vendicarsi, da qui, dato che non lo aveva mai visto in viso perché bendato durante le torture, viene instillato il dubbio che non sia lui, è così che chiede aiuto ad altre persone vittime dell'uomo, per riuscire ad identificarlo con certezza.
Prima di tutto, tramite semplici ma efficacissimi dialoghi, Panahi descrive il disumano contesto della situazione nelle carceri iraniane, il protagonista è un semplice lavoratore che è stato arrestato e torturato per aver protestato contro la situazione a lavoro, portandosene le conseguenze per sempre, venendo danneggiato ai reni, al punto che viene chiamato "la brocca", perché sta sempre con la mano sul rene che gli fa male, ma lo stesso destino lo hanno subito anche gli altri personaggi, che si portano le conseguenze psicologiche delle terribili torture, sono minuziose le descrizioni di persone appese a testa in giù per tre giorni per ottenere una confessione, o che vengono trascinate strisciando per i corridoi del carcere, i momenti di confronto che si vengono a creare portano lo spettatore in uno stato di forte angoscia, che ogni tanto il regista decide di smorzare con una raffinata ironia, ma, come detto da diversi personaggi, la loro vita è stata già rovinata.
E poi c'è la tematica della vendetta, trattata benissimo e con diverse riflessioni, il protagonista parte con un impeto apparentemente irrefrenabile, cattura l'uomo e lo porta in mezzo al deserto, quasi seppellendolo vivo, poi il dubbio lo fa fermare ed il tempo che passa sembra attenuare i sentimenti negativi nei suoi confronti, ma anche gli altri personaggi a loro modo sono emblematici, dalla fotografa che sembra essersi lasciata la brutta storia alle spalle, salvo poi esplodere in uno dei monologhi più potenti del film, in cui l'emotività ed il rancore per quanto vissuto emergono prepotentemente, alla coppia in procinto di sposarsi, con lei che interrompe forse uno dei momenti più felici della propria vita per cercare una vendetta nei confronti del torturatore, fino all'uomo più inc4zzato sulla faccia della terra nei suoi confronti che vuole massacrarlo subito, da questa situazione si generano diverse riflessioni interessanti, come il cerchio di violenza, che alcuni personaggi vorrebbero chiudere, a che servirebbe vendicarsi? Solo a creare ulteriore odio ed alimentare la già tremenda situazione, ma farlo fuori salverebbe la vita ad altre persone? Probabilmente no, metterebbero un altro come lui o peggiore al suo posto, così come la differenziazione tra bene e male, il non voler essere come il proprio carnefice, l'etica superiore che rifiuta una vendetta violenta in perfetto conflitto con l'istinto di ripagare tutto il mal fatto, lo spettatore stesso è estremamente coinvolto in questo conflitto morale.
E poi c'è quella parte, quella umana, quella riguardante la moglie incinta e la figlia, che vengono aiutate dai personaggi anche in una situazione del genere, un'oasi di umanità in un film dai tratti strazianti, sembra quasi un piccolo momento di pausa che Panahi concede allo spettatore, in cui nonostante tutto l'empatia non sembra sparita, ed i personaggi mostrano la loro caratura, per evitare equivoci.
Per il resto, finale stupendo, con quell'inquadratura di spalle, poco da dire, film intelligente ed attualissimo, un'altra perla proveniente dall'Iran che si dimostra ancora una volta una nazione con un cinema di altissimo livello.