Matteo Bordiga 9 / 10 23/09/2005 12:17:25 » Rispondi La sofferenza che trasuda dalla pellicola. Il grido di dolore di chi, come Kubrick, vomita la sua insopportabile impotenza di fronte all'obbrobbio di una guerra bestiale. L'inutilità del conflitto, fotografato in tutta la sua barbarie, nel suo abbraccio di sangue; la gratuità della morte, cui sono condannati i soldati di una fazione e dell'altra col pretesto di un presunto "sense of duty" americano che mette in moto la macchina bellica per pura filantropia. O per "far fuori il comunismo", come dice il sergente Hartman. "Noi, per ringraziare Dio del potere che ci ha dato, lo ripaghiamo donandogli nuove anime sempre fresche", continua il pluridecorato sergente. L'assassinio come dovere, neppure come diritto. La prima parte del film, dedicata all'addestramento delle reclute, si risolve in un capolavoro di denuncia politica, di "teoria psicologica" (come ottenere determinate risposte da un gruppo di persone utilizzando l'arma suprema del lavaggio del cervello) e, udite udite, perfino di comicità. Comicità amarissima ma pura, esplosiva, irresistibile. Kubrick spaventa lo spettatore, che potrebbe avvertire la sensazione claustrofobica di trovarsi calato nel centro di addestramento di Parris Island e dover rendere conto del proprio comportamento al crudele istruttore Hartman. Ma, nella tragedia, riesce a divertirlo, anzi a farlo sbellicare dalle risate: quanti di noi ricordano a menadito le battutacce di Hartman ai suoi soldati? Eppure tali "prodigi di turpiloquio" non costituiscono strettamente l'essenza più profonda del film. La seconda parte del film, che cambia radicalmente scenari e ambientazioni ("Per Kubrick la struttura è tutto; lui adora lavorare sulla forma dei suoi film, presentare una situazione e poi spostare la telecamera su scenari e 'storie' differenti", sono parole di Martin Scorsese), sposta l'obiettivo dal centro di addestramento alla guerra vera e propria, ma mantiene la sua carica drammatica e la rabbia della denuncia. I soldati americani muoiono a uno a uno, sotto il tiro di un cecchino invisibile: la brutale, banalissima "semplicità" della morte, rapida a bruciare vite umane senza un vero "perché". Anche i soldati americani stessi, intervistati sul posto da un network televisivo, ribadiscono che hanno risposto alla chiamata delle armi perché...già, perché? Nel contesto di una guerra insulsa, Kubrick regala alcune perle delle sue, pillole poetico-metaforiche che inducono a una riflessione sullo spirito e l'essenza dell' essere umano: si pensi al soldato Joker, l' "intellettuale" della compagnia, che reca sul casco (o forse sulla divisa), uno di fianco all'altro, il simbolo della pace e, scritto a lettere spigolose, il motto "born to kill". L'ambiguità, la complessità dell'uomo, da sempre al centro dell'attenzione kubrickiana, trova ancor di più la possibilità di sfogarsi in una situazione di disperata ineluttabilità della morte, come quella del Vietnam.