Ritorno ad Assita. Lungo i titoli di coda apprendo che l'attrice che interpreta la sorella di Felicie si chiama Nadège Ouedraogo. In attesa di scoprire l'effettiva parentela con l'Assita Ouedraogo de La promesse è chiaro il richiamo al viaggio della speranza del film di vent'anni fa. E' un viaggio che si conclude con la morte, assurda, beffarda e più tragica delle altre, etimologicamente parlando. Mi trovo ad esprimere queste considerazioni alla soglia del funerale di un uomo solo, che verrà sepolto indigente, senza esseri umani a dargli l'ultimo saluto, bensì esseri umani con cui ha avuto a che fare "professionalmente". Ma la professione che esercitiamo nasce dalla persona che siamo, e quindi siamo noi le persone che lui al tempo stesso ha avuto e non avuto nella sua vita. Cresciamo nella concezione errata del funerale come celebrazione di una vita certificata da parenti e amici. Niente di più sbagliato. L'assurdo che diviene ordinario, visto come tale, plausibile e frequente, diventa più tangibile. Non è questo che risulta agli occhi dell'ispettore nel film, che svolge il suo ruolo in maniera asettica, fredda, calcolata. "Non ho avuto tempo per..." o "Ho avuto molte altre cose da fare...", le frasi già sentite e risentite, e così sia noi che Jenny non possiamo celebrare la sepoltura di una donna, sotterrata e non sepolta, tornando alle parole di Thomas Bernhard del post qui sotto, nell'indifferenza generale, un numero su una lapide. La sepoltura è l'ossessione di Jenny. Non del medico, ma di Jenny. La morte di Felicie (poteva un nome essere più paradossalmente emblematico di questo? Un nome, un definire, che racchiude nascita, viaggio della speranza e morte?) non è un risultato di "Se lei avesse aperto...". Nella sua mediocrità il padre di Bryan rappresenta una società che cerca di scaricarsi la coscienza, e il cui tentativo di suicidio è talmente goffo e non sincero da risultare ridicolo. Tutte balle. La morte di Felicie è una morte sociale, e il responsabile vero è collettivo. Quel che Jenny sa fin dall'inizio è che non ha aperto per un banale atto di superbia nei confronti dello stagista. Sono i meccanismi inconsci di competizione che ci vengono trasmessi e introiettiamo più o meno consapevolmente. Sono atti di incoerenza che non hanno la forza di determinare una cascata di eventi ben più forti e decisivi come quelli che hanno condotto alla morte di Felicie (e di cui lo stesso padre di Bryan – volutamente senza nome – non è che un tassello anonimo), ma una breccia, un richiamo alla nostra responsabilità, nello specifico a quella di Jenny. Qualcosa di minuto e deflagrante che rianima un mai sopito moto di perseveranza. Nell'unico momento in cui è lei a confessare a qualcun altro, confida a Julien il suo senso di colpa. E' il rispecchiamento ad aiutarla a sfogarlo (Jenny vede nello stagista il proprio doppio), e il rispecchiamento che, alla fine, aiuta Julien a non mollare il proprio percorso. Nel mezzo la morte di una donna sconosciuta, che ha ricordato alla coscienza di Jenny che ci appartiene. E a Julien che la professione che voleva imparare e svolgere, e che tornerà a svolgere, si nutre non delle ombre del passato sulla sua persona, ma della luce che può dare. Una luce laica. Jenny nel frattempo è sola, ma voler restituire dignità la rende meno sola, "è la sua morte a dircelo" esclama al padre di Bryan, riferendosi al motivo dell'ossessione, che è chiaramente diverso, ma scaturiscono dalla stessa persona, e il suo farsi da parte nel confessare la narrazione dei fatti è un rimettere la responsabilità all'uomo, che come detto, ne è incapace. L'umano dolore, l'umana compartecipazione alla sorte altrui, quel meccanismo reiterato che trascende il limite tra ruolo umano e professionale della colpa, è qui che Jenny emerge al di là della propria apparente impassibilità e rigidità emotiva, perché la sua ossessione metabolizza il proprio ruolo che la assolve (in quanto l'ambulatorio era chiuso da un'ora e non era tenuta non solo ad aprire, ma neppure a vedere chi avesse suonato, non sarebbe neppure più dovuta essere lì, e invece finisce col dormirci e mangiarci – è attraverso il ruolo che realizza la sua impresa, ma il ruolo è solo una guida, uno strumento, un contorno, è lei a determinare il ruolo naturalmente, e non viceversa). E' il suo ruolo che catalizza tutte le confidenze/confessioni dei personaggi che ruotano attorno alla figura della sconosciuta? Il segreto professionale? Un confessore del male taciuto, rimosso, mistificato, un alter-ego di un prete-confessore appunto, questo appare Jenny ai personaggi negativi del film, o al povero Bryan che ha quei modelli, ma che probabilmente scorge i primi segni della propria responsabilità (non lascia Jenny nella fossa dopo un tentennamento come la mia amata Rosetta del film omonimo del '99), ma la sua perspicacia, abnegazione seguono un filo conduttore laico, ancora ruolo e donna insieme, un connubio che risolve non solo il mistero, mistero della morte intesa come fine del viaggio della speranza, definitiva, seppur la fine era già costituita dall'esito del viaggio che era l'esercizio dello sfruttamento, situazioni di ambiguità, una sorella complice, vite negate così come è palese quando entra in quell'internet point l'aria di dissimulazione, la stessa che la polizia conosce ma conserva per vantaggi apparentemente secondari, ma primari, mentre l'emarginazione, prostituzione e miseria sociale sono apparentemente primari ma secondari. Tutto scivola nel paradosso, restano Felicie, finalmente Felicie, e una confessione finale della sorella che appare come quella di Jenny a Julien, ancora rispecchiamento, certo più forte devastante e intima, una sorella che trova il coraggio di scavare nella vergogna di un pensiero terribile, orribile, di aver desiderato la morte di Felicie, per stupida gelosia. E' lei la depositaria dell'abbraccio solito non dei Dardenne, del Cinema dei Dardenne, in cui non smetto mai di riconoscermi (e che non riconoscerei senza i volti di Olivier Gourmet, Fabrizio Rongione e Jeremie Renier).