Perchè una donna, rea confessa del rapimento e delitto di un bambino, che passa tredici anni in carcere espiando giorno per giorno la sua colpa e cercando di rendere più lieve la vita delle sue compagne di cella (anche in modi poco ortodossi, in verità), all'uscita cambia completamente atteggiamento e si mette alla ricerca di un uomo che ritiene il vero colpevole della vicenda? Perchè, al contempo, continua a espiare la colpa (vera o presunta? completa o parziale?) compiendo anche azioni di automutilazione? Perchè non ha fin dall'inizio scaricato quella colpa sul vero autore delle efferate violenze, lasciandolo libero e indisturbato a compiere altri crudeli delitti?
Dopo un lunghissimo preambolo, scopriamo che la ragione della serena e "illuminata" permanenza di Geum-ja dietro le sbarre è la presenza di una figlia, mai incontrata e "rubata" proprio da quel professore di inglese che è il vero responsabile del crimine di cui la ragazza si accusò, per evitare che l'uomo uccidesse anche la bambina appena nata. L'espiazione di Geum-ja si lega alla concezione del crimine come peccato: lei non ha commesso direttamente l'omicidio di un bambino ma ne è stata complice e, dopo tredici anni e il ritrovamento del professore scopre la sua connivenza inconsapevole (dovuta alla mancata denuncia) di altri rapimenti, di altre morti di bambini innocenti. Geum-ja non può perdonarsi di aver lasciato che le cose andassero in quel modo: il suo è anche un peccato di omissione, potremmo dire omissione di soccorso nei confronti di quei bambini.
Ma la nemesi, per una donna e madre, nella sua concezione non può essere compiuta per conto terzi, e allora eccola rintracciare i genitori dei bambini scomparsi ai quali, in un'atmosfera da macelleria meticolosamente preparata con la dotazione di armi da taglio e impermeabili antischizzo, far compiere la loro personale vendetta o, meglio "giustizia". Il colpevole subisce infatti una sorta di processo, ascoltando tutte le considerazioni dei genitori, della vendicatrice e di un investigatore (l'ago della bilancia?) pronto ad assicurarlo alla giustizia ma anche a rendersi complice dell'esecuzione.
Geum-ja lava le colpe proprie e del professore col sangue, ma il sangue non è acqua e il colore nefando rimane appiccicato ai teli di plastica, alle armi, alle anime dei coinvolti... e perfino alla torta che la nostra offre a tutti al termine della cerimonia sacrificale. Eppure questo non basta: non basta ai genitori che lasciano il proprio numero di conto corrente per essere risarciti delle somme versate come riscatto, non basta a Geum-ja, perseguitata dal fantasma cresciuto del bambino rapito, che simbolicamente la parifica al suo vero uccisore.
Non c'è consolazione nè giustizia, con la vendetta.
prrrrr
Perchè una donna, rea confessa del rapimento e delitto di un bambino, che passa tredici anni in carcere espiando giorno per giorno la sua colpa e cercando di rendere più lieve la vita delle sue compagne di cella (anche in modi poco ortodossi, in verità), all'uscita cambia completamente atteggiamento e si mette alla ricerca di un uomo che ritiene il vero colpevole della vicenda? Perchè, al contempo, continua a espiare la colpa (vera o presunta? completa o parziale?) compiendo anche azioni di automutilazione? Perchè non ha fin dall'inizio scaricato quella colpa sul vero autore delle efferate violenze, lasciandolo libero e indisturbato a compiere altri crudeli delitti?
Dopo un lunghissimo preambolo, scopriamo che la ragione della serena e "illuminata" permanenza di Geum-ja dietro le sbarre è la presenza di una figlia, mai incontrata e "rubata" proprio da quel professore di inglese che è il vero responsabile del crimine di cui la ragazza si accusò, per evitare che l'uomo uccidesse anche la bambina appena nata. L'espiazione di Geum-ja si lega alla concezione del crimine come peccato: lei non ha commesso direttamente l'omicidio di un bambino ma ne è stata complice e, dopo tredici anni e il ritrovamento del professore scopre la sua connivenza inconsapevole (dovuta alla mancata denuncia) di altri rapimenti, di altre morti di bambini innocenti. Geum-ja non può perdonarsi di aver lasciato che le cose andassero in quel modo: il suo è anche un peccato di omissione, potremmo dire omissione di soccorso nei confronti di quei bambini.
Ma la nemesi, per una donna e madre, nella sua concezione non può essere compiuta per conto terzi, e allora eccola rintracciare i genitori dei bambini scomparsi ai quali, in un'atmosfera da macelleria meticolosamente preparata con la dotazione di armi da taglio e impermeabili antischizzo, far compiere la loro personale vendetta o, meglio "giustizia". Il colpevole subisce infatti una sorta di processo, ascoltando tutte le considerazioni dei genitori, della vendicatrice e di un investigatore (l'ago della bilancia?) pronto ad assicurarlo alla giustizia ma anche a rendersi complice dell'esecuzione.
Geum-ja lava le colpe proprie e del professore col sangue, ma il sangue non è acqua e il colore nefando rimane appiccicato ai teli di plastica, alle armi, alle anime dei coinvolti... e perfino alla torta che la nostra offre a tutti al termine della cerimonia sacrificale. Eppure questo non basta: non basta ai genitori che lasciano il proprio numero di conto corrente per essere risarciti delle somme versate come riscatto, non basta a Geum-ja, perseguitata dal fantasma cresciuto del bambino rapito, che simbolicamente la parifica al suo vero uccisore.
Non c'è consolazione nè giustizia, con la vendetta.
Perchè una donna, rea confessa del rapimento e delitto di un bambino, che passa tredici anni in carcere espiando giorno per giorno la sua colpa e cercando di rendere più lieve la vita delle sue compagne di cella (anche in modi poco ortodossi, in verità), all'uscita cambia completamente atteggiamento e si mette alla ricerca di un uomo che ritiene il vero colpevole della vicenda? Perchè, al contempo, continua a espiare la colpa (vera o presunta? completa o parziale?) compiendo anche azioni di automutilazione? Perchè non ha fin dall'inizio scaricato quella colpa sul vero autore delle efferate violenze, lasciandolo libero e indisturbato a compiere altri crudeli delitti?
Dopo un lunghissimo preambolo, scopriamo che la ragione della serena e "illuminata" permanenza di Geum-ja dietro le sbarre è la presenza di una figlia, mai incontrata e "rubata" proprio da quel professore di inglese che è il vero responsabile del crimine di cui la ragazza si accusò, per evitare che l'uomo uccidesse anche la bambina appena nata. L'espiazione di Geum-ja si lega alla concezione del crimine come peccato: lei non ha commesso direttamente l'omicidio di un bambino ma ne è stata complice e, dopo tredici anni e il ritrovamento del professore scopre la sua connivenza inconsapevole (dovuta alla mancata denuncia) di altri rapimenti, di altre morti di bambini innocenti. Geum-ja non può perdonarsi di aver lasciato che le cose andassero in quel modo: il suo è anche un peccato di omissione, potremmo dire omissione di soccorso nei confronti di quei bambini.
Ma la nemesi, per una donna e madre, nella sua concezione non può essere compiuta per conto terzi, e allora eccola rintracciare i genitori dei bambini scomparsi ai quali, in un'atmosfera da macelleria meticolosamente preparata con la dotazione di armi da taglio e impermeabili antischizzo, far compiere la loro personale vendetta o, meglio "giustizia". Il colpevole subisce infatti una sorta di processo, ascoltando tutte le considerazioni dei genitori, della vendicatrice e di un investigatore (l'ago della bilancia?) pronto ad assicurarlo alla giustizia ma anche a rendersi complice dell'esecuzione.
Geum-ja lava le colpe proprie e del professore col sangue, ma il sangue non è acqua e il colore nefando rimane appiccicato ai teli di plastica, alle armi, alle anime dei coinvolti... e perfino alla torta che la nostra offre a tutti al termine della cerimonia sacrificale. Eppure questo non basta: non basta ai genitori che lasciano il proprio numero di conto corrente per essere risarciti delle somme versate come riscatto, non basta a Geum-ja, perseguitata dal fantasma cresciuto del bambino rapito, che simbolicamente la parifica al suo vero uccisore.
Non c'è consolazione nè giustizia, con la vendetta.
Perchè una donna, rea confessa del rapimento e delitto di un bambino, che passa tredici anni in carcere espiando giorno per giorno la sua colpa e cercando di rendere più lieve la vita delle sue compagne di cella (anche in modi poco ortodossi, in verità), all'uscita cambia completamente atteggiamento e si mette alla ricerca di un uomo che ritiene il vero colpevole della vicenda? Perchè, al contempo, continua a espiare la colpa (vera o presunta? completa o parziale?) compiendo anche azioni di automutilazione? Perchè non ha fin dall'inizio scaricato quella colpa sul vero autore delle efferate violenze, lasciandolo libero e indisturbato a compiere altri crudeli delitti?
Dopo un lunghissimo preambolo, scopriamo che la ragione della serena e "illuminata" permanenza di Geum-ja dietro le sbarre è la presenza di una figlia, mai incontrata e "rubata" proprio da quel professore di inglese che è il vero responsabile del crimine di cui la ragazza si accusò, per evitare che l'uomo uccidesse anche la bambina appena nata. L'espiazione di Geum-ja si lega alla concezione del crimine come peccato: lei non ha commesso direttamente l'omicidio di un bambino ma ne è stata complice e, dopo tredici anni e il ritrovamento del professore scopre la sua connivenza inconsapevole (dovuta alla mancata denuncia) di altri rapimenti, di altre morti di bambini innocenti. Geum-ja non può perdonarsi di aver lasciato che le cose andassero in quel modo: il suo è anche un peccato di omissione, potremmo dire omissione di soccorso nei confronti di quei bambini.
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Dopo un lunghissimo preambolo, scopriamo che la ragione della serena e "illuminata" permanenza di Geum-ja dietro le sbarre è la presenza di una figlia, mai incontrata e "rubata" proprio da quel professore di inglese che è il vero responsabile del crimine di cui la ragazza si accusò, per evitare che l'uomo uccidesse anche la bambina appena nata. L'espiazione di Geum-ja si lega alla concezione del crimine come peccato: lei non ha commesso direttamente l'omicidio di un bambino ma ne è stata complice e, dopo tredici anni e il ritrovamento del professore scopre la sua connivenza inconsapevole (dovuta alla mancata denuncia) di altri rapimenti, di altre morti di bambini innocenti. Geum-ja non può perdonarsi di aver lasciato che le cose andassero in quel modo: il suo è anche un peccato di omissione, potremmo dire omissione di soccorso nei confronti di quei bambini.
Ma la nemesi, per una donna e madre, nella sua concezione non può essere compiuta per conto terzi, e allora eccola rintracciare i genitori dei bambini scomparsi ai quali, in un'atmosfera da macelleria meticolosamente preparata con la dotazione di armi da taglio e impermeabili antischizzo, far compiere la loro personale vendetta o, meglio "giustizia". Il colpevole subisce infatti una sorta di processo, ascoltando tutte le considerazioni dei genitori, della vendicatrice e di un investigatore (l'ago della bilancia?) pronto ad assicurarlo alla giustizia ma anche a rendersi complice dell'esecuzione.
Geum-ja lava le colpe proprie e del professore col sangue, ma il sangue non è acqua e il colore nefando rimane appiccicato ai teli di plastica, alle armi, alle anime dei coinvolti... e perfino alla torta che la nostra offre a tutti al termine della cerimonia sacrificale. Eppure questo non basta: non basta ai genitori che lasciano il proprio numero di conto corrente per essere risarciti delle somme versate come riscatto, non basta a Geum-ja, perseguitata dal fantasma cresciuto del bambino rapito, che simbolicamente la parifica al suo vero uccisore.
Non c'è consolazione nè giustizia, con la vendetta.
Perchè una donna, rea confessa del rapimento e delitto di un bambino, che passa tredici anni in carcere espiando giorno per giorno la sua colpa e cercando di rendere più lieve la vita delle sue compagne di cella (anche in modi poco ortodossi, in verità), all'uscita cambia completamente atteggiamento e si mette alla ricerca di un uomo che ritiene il vero colpevole della vicenda? Perchè, al contempo, continua a espiare la colpa (vera o presunta? completa o parziale?) compiendo anche azioni di automutilazione? Perchè non ha fin dall'inizio scaricato quella colpa sul vero autore delle efferate violenze, lasciandolo libero e indisturbato a compiere altri crudeli delitti?
Dopo un lunghissimo preambolo, scopriamo che la ragione della serena e "illuminata" permanenza di Geum-ja dietro le sbarre è la presenza di una figlia, mai incontrata e "rubata" proprio da quel professore di inglese che è il vero responsabile del crimine di cui la ragazza si accusò, per evitare che l'uomo uccidesse anche la bambina appena nata. L'espiazione di Geum-ja si lega alla concezione del crimine come peccato: lei non ha commesso direttamente l'omicidio di un bambino ma ne è stata complice e, dopo tredici anni e il ritrovamento del professore scopre la sua connivenza inconsapevole (dovuta alla mancata denuncia) di altri rapimenti, di altre morti di bambini innocenti. Geum-ja non può perdonarsi di aver lasciato che le cose andassero in quel modo: il suo è anche un peccato di omissione, potremmo dire omissione di soccorso nei confronti di quei bambini.
Ma la nemesi, per una donna e madre, nella sua concezione non può essere compiuta per conto terzi, e allora eccola rintracciare i genitori dei bambini scomparsi ai quali, in un'atmosfera da macelleria meticolosamente preparata con la dotazione di armi da taglio e impermeabili antischizzo, far compiere la loro personale vendetta o, meglio "giustizia". Il colpevole subisce infatti una sorta di processo, ascoltando tutte le considerazioni dei genitori, della vendicatrice e di un investigatore (l'ago della bilancia?) pronto ad assicurarlo alla giustizia ma anche a rendersi complice dell'esecuzione.
Geum-ja lava le colpe proprie e del professore col sangue, ma il sangue non è acqua e il colore nefando rimane appiccicato ai teli di plastica, alle armi, alle anime dei coinvolti... e perfino alla torta che la nostra offre a tutti al termine della cerimonia sacrificale. Eppure questo non basta: non basta ai genitori che lasciano il proprio numero di conto corrente per essere risarciti delle somme versate come riscatto, non basta a Geum-ja, perseguitata dal fantasma cresciuto del bambino rapito, che simbolicamente la parifica al suo vero uccisore.
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Geum-ja lava le colpe proprie e del professore col sangue, ma il sangue non è acqua e il colore nefando rimane appiccicato ai teli di plastica, alle armi, alle anime dei coinvolti... e perfino alla torta che la nostra offre a tutti al termine della cerimonia sacrificale. Eppure questo non basta: non basta ai genitori che lasciano il proprio numero di conto corrente per essere risarciti delle somme versate come riscatto, non basta a Geum-ja, perseguitata dal fantasma cresciuto del bambino rapito, che simbolicamente la parifica al suo vero uccisore.
Non c'è consolazione nè giustizia, con la vendetta.
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Ma la nemesi, per una donna e madre, nella sua concezione non può essere compiuta per conto terzi, e allora eccola rintracciare i genitori dei bambini scomparsi ai quali, in un'atmosfera da macelleria meticolosamente preparata con la dotazione di armi da taglio e impermeabili antischizzo, far compiere la loro personale vendetta o, meglio "giustizia". Il colpevole subisce infatti una sorta di processo, ascoltando tutte le considerazioni dei genitori, della vendicatrice e di un investigatore (l'ago della bilancia?) pronto ad assicurarlo alla giustizia ma anche a rendersi complice dell'esecuzione.
Geum-ja lava le colpe proprie e del professore col sangue, ma il sangue non è acqua e il colore nefando rimane appiccicato ai teli di plastica, alle armi, alle anime dei coinvolti... e perfino alla torta che la nostra offre a tutti al termine della cerimonia sacrificale. Eppure questo non basta: non basta ai genitori che lasciano il proprio numero di conto corrente per essere risarciti delle somme versate come riscatto, non basta a Geum-ja, perseguitata dal fantasma cresciuto del bambino rapito, che simbolicamente la parifica al suo vero uccisore.
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Non c'è consolazione nè giustizia, con la vendetta.
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Geum-ja lava le colpe proprie e del professore col sangue, ma il sangue non è acqua e il colore nefando rimane appiccicato ai teli di plastica, alle armi, alle anime dei coinvolti... e perfino alla torta che la nostra offre a tutti al termine della cerimonia sacrificale. Eppure questo non basta: non basta ai genitori che lasciano il proprio numero di conto corrente per essere risarciti delle somme versate come riscatto, non basta a Geum-ja, perseguitata dal fantasma cresciuto del bambino rapito, che simbolicamente la parifica al suo vero uccisore.
Non c'è consolazione nè giustizia, con la vendetta.
Perchè una donna, rea confessa del rapimento e delitto di un bambino, che passa tredici anni in carcere espiando giorno per giorno la sua colpa e cercando di rendere più lieve la vita delle sue compagne di cella (anche in modi poco ortodossi, in verità), all'uscita cambia completamente atteggiamento e si mette alla ricerca di un uomo che ritiene il vero colpevole della vicenda? Perchè, al contempo, continua a espiare la colpa (vera o presunta? completa o parziale?) compiendo anche azioni di automutilazione? Perchè non ha fin dall'inizio scaricato quella colpa sul vero autore delle efferate violenze, lasciandolo libero e indisturbato a compiere altri crudeli delitti?
Dopo un lunghissimo preambolo, scopriamo che la ragione della serena e "illuminata" permanenza di Geum-ja dietro le sbarre è la presenza di una figlia, mai incontrata e "rubata" proprio da quel professore di inglese che è il vero responsabile del crimine di cui la ragazza si accusò, per evitare che l'uomo uccidesse anche la bambina appena nata. L'espiazione di Geum-ja si lega alla concezione del crimine come peccato: lei non ha commesso direttamente l'omicidio di un bambino ma ne è stata complice e, dopo tredici anni e il ritrovamento del professore scopre la sua connivenza inconsapevole (dovuta alla mancata denuncia) di altri rapimenti, di altre morti di bambini innocenti. Geum-ja non può perdonarsi di aver lasciato che le cose andassero in quel modo: il suo è anche un peccato di omissione, potremmo dire omissione di soccorso nei confronti di quei bambini.
Ma la nemesi, per una donna e madre, nella sua concezione non può essere compiuta per conto terzi, e allora eccola rintracciare i genitori dei bambini scomparsi ai quali, in un'atmosfera da macelleria meticolosamente preparata con la dotazione di armi da taglio e impermeabili antischizzo, far compiere la loro personale vendetta o, meglio "giustizia". Il colpevole subisce infatti una sorta di processo, ascoltando tutte le considerazioni dei genitori, della vendicatrice e di un investigatore (l'ago della bilancia?) pronto ad assicurarlo alla giustizia ma anche a rendersi complice dell'esecuzione.
Geum-ja lava le colpe proprie e del professore col sangue, ma il sangue non è acqua e il colore nefando rimane appiccicato ai teli di plastica, alle armi, alle anime dei coinvolti... e perfino alla torta che la nostra offre a tutti al termine della cerimonia sacrificale. Eppure questo non basta: non basta ai genitori che lasciano il proprio numero di conto corrente per essere risarciti delle somme versate come riscatto, non basta a Geum-ja, perseguitata dal fantasma cresciuto del bambino rapito, che simbolicamente la parifica al suo vero uccisore.
Non c'è consolazione nè giustizia, con la vendetta.