Non è stato sempre popolare trattare il sudicio, ritrarre le put.tane, scrivere del "pattume" umano agli angoli delle strade, ripercorrere in versi infernali gli itinerari lisergici. Ormai è invece vogue e vague molto affermata, raccogliere il sordido e farne materia di narrazione. Non è dunque in tal senso che fa scalpore True detective. Né tanto meno risulta folgorante una delle sue più virali taglines: "Man is the cruelest animal". E' da un bel po' che ci penso, al perché la serie mi sia piaciuta, a parte l' ordinaria soddisfazione nel vedere le cose fatte per bene; ebbene, sono arrivata alla conclusione che l'unica ragione è appunto questa: tutto di fatto è stato fatto per bene. Inoltre (ma allora!), poiché l'uomo non solo è l'animale più crudele, ma è anche quello più smemorato, perseverante, quindi più diabolico, non è mai superfluo rimarcare le solite vecchie acquisizioni sul mondo. Innanzitutto, che siamo voragini. Gli assassini, specie quelli seriali, con la loro dedizione quasi infantile- avrete presente la serietà maniacale con cui giocano i bambini- manifestano l'estremo esito della nostra consistenza putrescente. Volendo usare una metafora assolutamente a caso, i serial killers sono fotografi col flash. Il flash è un'arma impropria, uno strumento piuttosto vigliacco. Ha il potere di cristallizzare un soggetto in breve tempo, e senza alcuna pietà. Non cattura lo sguardo, ma ciò che c'è dietro, il riflesso rosso del sangue.
Si è parlato di True detective come di un racconto che non si limita ad illustrare la caccia di uno squilibrato. Vero solo da una certa ottica. Dall'altra, si può notare come l'indagine su una catena di omicidi comporti di per sé uno studio in profondità.
Errol, il nostro amico sfregiato dalle orecchie verdi, una specie di quegli hoarders che vedo alle volte su Real time, intrappola i due investigatori in una tela d' irrequietezza, adrenalina, impaziente ossessione; coordina le loro vite per ben diciassette anni, epura ogni elemento sovrabbondante, distraente. Per raggiungere Carcosa, dimensione quasi extraterrestre, ultimo bagliore di una sensibilità fantasmagorica che muove tutti i capitoli, per diventare, insomma, "true detectives", Rust e Marty lasciano crollare ogni orpello consolatorio (le compagne di vita), e ogni legittimazione esterna (il distintivo, il titolo ufficiale).
Non più larve, maschere di creature ancora sconosciute, ma esseri destinati a riaffiorare dalla dolcezza visionaria delle tenebre, per constatare l'amaro trionfo della forma e della spazio, l'ancestrale assuefazione ai contorni dei corpi. La vittoria della luce sulla Terra "informe e deserta" ("without -form and void-").
Piccole note sui personaggi. Non ho nulla di interessante da dire sull'interessante personaggio di Marty Hart, il cui cognome, parola desueta per indicare il cervo maschio, lo lega fatalmente alle circostanze (questa è decisamente una ghezziata). Mentre mi sento di spendere due parole per Rustin Cohle. Rust è per l'appunto rugginoso, intossicante, ineludibile. Ha un' essenza metallica e una superficie ruvida. E' dotato di un'intelligenza fuori dal comune, adopera un linguaggio da bibliofilo, parla strascicando con l'incomprensibile cadenza texana di M.McConaughey. Fuma tenendo la sigaretta tra i polpastrelli di pollice ed indice, una di quelle stereotipie gestuali che vestono di storia e miticità un personaggio. Se fosse un albero sarebbe un leccio, e per la precisione il live oak che Walt Whitman vide crescere in Lousiana.
"I saw in Louisiana a live oak growing,
All alone stood it and the moss hung down from the branches,
Without any companion it grew there uttering joyous leaves of dark green,
And its look, rude, unbending, lusty, made me think of myself,
But I wonder'd how it could utter joyous leaves standing alone there without its friend near, for I knew I could not…."