Recensione alla luce del sole regia di Roberto Faenza Italia 2004
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Recensione alla luce del sole (2004)

Voto Visitatori:   7,96 / 10 (101 voti)7,96Grafico
Voto Recensore:   8,00 / 10  8,00
David giovani
VINCITORE DI 1 PREMIO DAVID DI DONATELLO:
David giovani
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locandina del film ALLA LUCE DEL SOLE

Immagine tratta dal film ALLA LUCE DEL SOLE

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Immagine tratta dal film ALLA LUCE DEL SOLE

Immagine tratta dal film ALLA LUCE DEL SOLE
 

Don Giuseppe Puglisi ancor prima di essere un parroco era un uomo, ed era un uomo coraggioso, un coraggio scomodo, imbarazzante per lo Stato e per la Chiesa, un coraggio che costringe il primo all'omertà e la seconda al silenzio; don Puglisi ha vissuto gli ultimi due anni della sua vita come un condannato a morte sapendo di esserlo. Quando il 15 settembre del 1993, il giorno del suo 56mo compleanno, il suo assassino, un pluriomicida di 28 anni, gli punta contro la pistola con il silenziatore dicendo: "Padre, questa è una rapina!", con il solito sorriso, quello che rivolgeva sempre a tutti, don Puglisi risponde: "Me lo aspettavo!". Sono le ultime parole che ha pronunciato.

Con questa sequenza inizia questo bellissimo film di Roberto Faenza, prima che un lungo flashback ci riporti indietro, ai giorni felici, all'inizio della sua esperienza pastorale nel tristemente noto quartiere alle porte di Palermo, Brancaccio, quando, con la costruzione di un centro di accoglienza, inizia un percorso di reinserimento dei bambini nella società civile togliendoli dal degrado della strada e sottraendoli ad un futuro di criminali. Purtroppo il futuro che sogna don Puglisi non è lo stesso che progettano i boss della mafia; per questo bisogna interrompere i sogni di questo sacerdote, è necessario fermare questo reclutamento di giovani anime ad ogni costo, don Puglisi è già un ombra.

Faenza descrive senza indugi e senza mezzi termini la violenza che soffoca un quartiere che rimane sordo ai richiami lanciati dal volenteroso prete; le sue attenzioni infatti sono rivolte prevalentemente ai bambini ed ai ragazzi di Brancaccio, i quali sarebbero anche disposti ad intraprendere un percorso di legalità. La figura del prete, che con i suoi modi riesce a coinvolgerli in positivo all'interno del centro, li affascina, ma questo sentimento nascente è costretto poi a scontrarsi con la triste realtà delle famiglie, dove invece predomina il virus della criminalità organizzata.

Quanta forza è stata necessaria al povero padre Puglisi per reagire al desolante spettacolo, durante la sua prima messa, di una chiesa fredda e vuota; dal punto di vista di un prete che crede in quello che fa, non è una cosa facile, l'immagine è emblematica: è la consapevolezza dell'assenza sul territorio, oltre che delle istituzioni, anche della chiesa, la quale in un contesto come quello del quartiere Brancaccio, come d'altra parte in molte altre situazioni, cede al compromesso; accade allora che il parroco faccia il parroco (battesimi, matrimoni, funerali ) ed ignori, o finga di ignorare, la violenza e il degrado che lo circondano (delitti, disoccupazione, furti, disagio giovanile).
La mafia lavora quindi tranquilla, complice questo silenzio ecclesiastico, fino al giorno in cui arriva un prete e crea una frattura in questo comodo rapporto di omertà decidendo di non attenersi più a questa tradizione. Questo prete deve essere eliminato.

Il 1992 e il 1993 sono stati gli anni in cui la mafia, più di altre volte, ha fatto percepire ai comuni cittadini l'assenza dello Stato; chi non ricorda le parole di Antonio Caponnetto subito dopo la morte del giudice Borsellino, fatto saltare in aria in via D'Amelio ("E' finito tutto! è finito tutto!"); la folla inferocita che rompe i cordoni della polizia e si scaglia contro i politici insultandoli durante i funerali; come non ricordare Giovanni Falcone quando sosteneva: "La mafia non è affatto invincibile, è un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà una fine", pochi mesi prima di trovare la morte nella strage di Capaci.
Anche la Chiesa ha provato a reagire indignata a questa escalation di violenza con Giovanni Paolo II, che a maggio del 1993 tuonava: "Io dico ai responsabili: convertitevi! Per amore di Dio, mafiosi, convertitevi. Un giorno verrà il giudizio di Dio e dovrete rendere conto delle vostre malefatte". Parole forti ma che, come sempre, hanno trovato l'invalicabile muro dell'indifferenza da parte di coloro ai quali venivano rivolte: soltanto quattro mesi dopo, la stessa cosca che aveva organizzato le stragi di Falcone e Borsellino uccide barbaramente quel don Puglisi che iniziava a diventare una spina nel fianco.

Bisogna ringraziare Roberto Faenza per aver temporaneamente abbandonato le atmosfere che fino all'ora avevano caratterizzato la sua produzione, per immergersi nel contesto di una drammaticità tristemente reale come quella della mafia, e bisogna ringraziare Luca Zingaretti che con una strepitosa interpretazione rende onore ad un uomo che, al contrario di molti eroi di cartone, osannati dai media e dalla critica, ha sempre lavorato in silenzio con quell'umiltà che è propria delle persone oneste.

Nonostante sia il tono dimesso a fare da impalcatura all'intera pellicola, Faenza descrive gli uomini del clan per quello che sono, gente senza scrupoli, capaci di negare ai propri figli l'infanzia, testimoniata da alcune bellissime scene.
Quando don Puglisi arriva a Brancaccio, nel quartiere non ci sono asili nido, non c'è una scuola media e non tutti i bambini arrivano a frequentare la quinta elementare; invani sono stati i tentativi di farne costruire una: scolarizzare i bambini significava sottrarli da una realtà e farli entrare in un'altra, il vivaio di manovalanza criminale avrebbe subito un'emorragia. Anche per questo don Puglisi è stato ucciso.

Molto interessante e forse troppo poco conosciuto questo regista e sceneggiatore cinematografico e televisivo che, dopo un inizio carriera caratterizzato da una forte impronta anticonformista dai contenuti politico-satirici, ha poi convogliato la sua attività verso una fase più letteraria e calligrafica, conquistando nel 1993 il David di Donatello con il magnifico "Jona che visse nella balena".
E' un suo merito l'aver portato a conoscenza una vicenda che dovrebbe coinvolgerci tutti, una vicenda triste ma che trasmette un messaggio di amore e di giustizia che non deve passare inosservato.

"Gli assassini, coloro che vivono e si nutrono di violenza, hanno perso la dignità umana. Sono meno che uomini, si degradano da soli, per le loro scelte, al rango di animali. Mi rivolgo anche ai protagonisti delle intimidazioni che ci hanno bersagliato. Parliamone, spieghiamoci, vorrei conoscervi e conoscere i motivi che vi spingono ad ostacolare chi tenta di educare i vostri figli alla legalità, al rispetto reciproco, ai valori della cultura e della convivenza civile".
Pochi giorni dopo, al suo assassino, regalò l'ultimo sorriso.

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Recensione a cura di Marco Iafrate - aggiornata al 02/12/2008

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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