Recensione cobra verde regia di Werner Herzog Germania 1987
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Recensione cobra verde (1987)

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locandina del film COBRA VERDE

Immagine tratta dal film COBRA VERDE

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Immagine tratta dal film COBRA VERDE

Immagine tratta dal film COBRA VERDE

Immagine tratta dal film COBRA VERDE
 

"Cobra verde" comincia nello stesso modo in cui finirà: Kinski, l'uomo annichilito entro una natura sconfinata, impassibile, non penetrabile - il distruttore che porta impressa la sua smorfia di disgusto sul volto - che s'accascia al cospetto di essa.

In principio è un paesaggio desertico del Sertao, cosparso di carcasse di animali, quello che si pone dinnanzi al protagonista: Manoel Garcia da Silva, il bandito, l' assassino che spara dai ruderi di una chiesa: porta con sé il terrore: sarà uno schiavista!

L'ultimo capitolo del sodalizio Herzog/Kinski (se s'esclude il meraviglioso documentario "Kinski, il mio nemico più caro" che il regista dedicherà all'attore scomparso) comincia così, come andrà a finire, nel confronto di dolore tra Manoel e uno storpio - tra colui che lo arreca e colui che ne porta sul corpo i segni - l'unico amico che abbia mai avuto.

Non è una presenza nuova, quella del freak, in una pellicola di questo autore ("Anche i nani hanno cominciato da piccoli"; "L'enigma di Kaspar Hauser"), ma venuta a rinnovare il suo patto con l'uomo di Herzog, e l'invito ad una terra promessa onirica ma sofferente.

Se in Flaherty - uno tra i più grandi documentaristi antropologi del passato, e dei maestri che più hanno influenzato l'opera di Herzog - l'umanità, colta negli ambienti più estremi del pianeta, vive con ritegno la sua lotta, e si sa adattare a quegli spazi limitati che la natura gli concede; l'uomo di Herzog - Kinski ancora una volta - è l'individuo inquieto, intrattabile, solitario, violento, iroso, insoddisfatto, megalomane; personifica quell'ambizione umana che s'avventa oltre le frontiere del possibile.

Da Silva è un Aguirre senza più nemmeno il richiamo dell'oro di El Dorado, è un Fitzcarraldo che issa la sua nave in cima a un fiume che non ha corso, al di là di una montagna inconsistente. La meta c'è, ma non ha più forma né significato: è mera astrazione, indistinta vanità.

Da Bahia all'Africa, da peccatore individuale (il bandito) a criminale dell'umanità (lo schiavista): Manoel approda in quel mondo nuovo non per sua volontà, ma inviato da altri; accetta il fatto non come condanna ma come possibilità di rivalsa, come occasione mediante cui espandere la propria foga dominatrice e soddisfarla. Incendia, calpesta, ma dopo che è passato, tutto riprende la sua forma originale.

Cerca qui di comprovare il proprio carattere, e finisce per disperderlo ulteriormente: s'implica in una guerra non sua, in un mondo selvaggio fatto di simboli e miti indecifrabili, d'etnie misteriose, di riti incomprensibili, di re-leopardo occulti.

Cade imprigionato, coperto di fango; viene liberato dagli uomini di un principe dagli occhi sgranati (che quasi ricorda il nero di una pellicola di Tourneur: "Ho camminato con uno zombi"); si trova infine ad addestrare un esercito di amazzoni dove, col prospetto di una nuova lotta, la sua energia incendiaria riprende vigore: la massa scatenata delle donne ha però momenti d'ordine, di pace; per brevi istanti, sembra addirittura addomesticarsi alle esigenze dello spettacolo: s'organizza in quadri coreografici, intreccia motivi, prende fiato, si lenisce, balza nuovamente in piedi.

Se Herzog è il pastore, Kinski è il cane che tiene unito il gregge assalitore!

Verso la fine del racconto, Manoel passa in mezzo ad una danza di monache bambine, sorride per la prima volta, e si trova visibilmente in imbarazzo.

Gran parte della critica ha mal giudicato l'andamento poco lineare del film. La vicenda è narrata mediante immagini rapsodiche, di grande potenza visionaria ma poco coeve, non legate da una continuità cronologica. Trent'anni passano, ma bruciano rapidamente con il fervore del protagonista. Le prestazioni del regista "atleta" (secondo una sua auto-definizione), appaiono accusare un po' di stanchezza.

Ma è una critica che potrebbe valere in altri casi, non per quanto riguarda "Cobra verde" di Herzog. Il folle e straordinario rapporto tra Herzog e Kinski è logoro, indubbiamente, ma questa crisi viene autenticamente portata nel set, introducendo un film dentro al film, e il documento di tale rottura.

Kinski non è solo Manoel da Silva, l'uomo cupido che prova ad espandere il proprio status oltre i confini naturali, è anche se stesso, l'attore ribelle che si rifiuta di sottostare alle leggi della regia. Porta dentro la finzione la sua carica reale, la propria turbolenza. E' ancora quel conquistadores indomabile ma sconfitto.

Se pensiamo al film "L'enigma di Kaspar Hauser", ricordiamo di un sogno in cui veniva raffigurato un cammino lungo il deserto e verso una terra promessa.

C'è un punto in "Cobra verde" in cui Manoel, vittorioso e già padre di 62 figli, scrive una lettera in cui esprime il suo malessere nei confronti di quel paese di calura che malvolentieri lo ospita, evocando un luogo di alte montagne innevate.

In entrambe le situazioni, dove i siti sognati risultano essere l'opposto di quelli abitati, è leggibile tutta l'insoddisfazione, tutta quell'incapacità di adattarsi e di rinunciare alle proprie follie da parte dei protagonisti herzoghiani.

Quello di Herzog è, anzitutto, un cinema estremo che, come in Flaherty, trova la sua collocazione ai margini del pianeta e dell'umanità: siano essi l'Amazzonia, il deserto, i ghiacciai, la giungla, l'Alaska, il Paese dell'oscurità e del silenzio, l'Africa di "Cobra verde".

È un cinema affascinante proprio in quanto ambiguo. Ci si può chiedere come mai, ad esempio, un cercatore di realtà come Herzog, avrebbe sentito la necessità d'usufruire del mezzo della finzione per portare a compimento la propria ricerca.

Se si cerca poesia, si trova poesia, ma dietro ad essa tanta realtà.
Se si cerca eros, si trova eros, ma accanto anche morte, mosche, decomposizione. Certamente, sottolineate ancora dalle musiche solenni ed evocative dei Popol Vuh, s'incontrano molte allucinazioni - e non solo d'origine umana - come febbre, gelo, nebbia, afa, vertigini, miraggi di fata morgana.

Ma una cosa manca in questo come in tutti gli altri lavori di Herzog: l'ironia. Manca perché l'uomo di Herzog è confatto alla natura che prova ad esplorare e a dominare. Ma gli somiglia solo in parte: la natura, come lui, non è ironica, soffre anch'essa ma è ambiziosa in diverso modo, in una maniera più ponderata.

Nel documentario "Kinski, il mio nemico più caro", Herzog sta contemplando alcune foto dell'attore scomparso appese alle pareti, e trovatosi davanti ad un'immagine che raffigura una scena di "Fitzcarraldo", dichiara: "È una grande metafora, non so di cosa, ma è una grande metafora". La foto successiva si riferisce al finale di "Cobra verde".

Le ultime sequenze del film potrebbero essere anche vedute come un breve film bellissimo a sé stante, che chiude e riassume splendidamente tutta l'esperienza umana ed artistica della collaborazione tra Herzog e Kinski.

Mentre sulle coste gli schiavi neri agitano bianche bandiere, facendo segnali che sembrano quasi un richiamo alla libertà e alla pace nel mondo, Manoel da Silva, il negriero Cobra Verde, che ha ormai perduto tutto il suo impero, s'avventa contro una barca arenata sulla riva, la spinge disperatamente, con tutte le forze rimastegli, provando senza riuscirvi a trascinarla in acqua.
Il mare, simbolo eterno dei viaggiatori, lo raggiunge beffardamente con le sue onde.
Intanto, in lontananza, un nero storpio a tre zampe (un poliomielitico) s'avvicina cautamente, quasi con benevolenza, leggero lungo la riva.

Sembra essere la schiavitù che tanto ha patito e ora in procinto di essere liberata.

È quello storpio che all'inizio Manoel incontrò in una locanda, trasformatosi ulteriormente.

È il portatore di tutte le minoranze tanto care al regista.

È il cinema stesso di Herzog, insolito e informe.

È un messaggero, forse il traghettatore.

È l'impotenza del carattere di Kinski e il suo fallimento.

È quel sogno che viene a ricongiungersi all'uomo crudele, e questa unione ha tutta l'aria che sarà dolorosa ma liberatoria.

Sì Werner, anche questa è una grande metafora, non sappiamo di cosa ma è forse la più grande di tutte le tue metafore.

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Recensione a cura di Ciumi - aggiornata al 16/12/2009

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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