Recensione fuga di mezzanotte regia di Alan Parker Gran Bretagna 1978
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Recensione fuga di mezzanotte (1978)

Voto Visitatori:   8,38 / 10 (158 voti)8,38Grafico
Voto Recensore:   10,00 / 10  10,00
Migliore sceneggiatura non originaleMiglior colonna sonora
VINCITORE DI 2 PREMI OSCAR:
Migliore sceneggiatura non originale, Miglior colonna sonora
Miglior film drammaticoMiglior sceneggiatura (Oliver Stone)Miglior attore non protagonista (John Hurt)Miglior attore debuttante (Brad Davis)Miglior attrice debuttante (Irene Miracle)Miglior colonna sonora (Giorgio Moroder)
VINCITORE DI 6 PREMI GOLDEN GLOBE:
Miglior film drammatico, Miglior sceneggiatura (Oliver Stone), Miglior attore non protagonista (John Hurt), Miglior attore debuttante (Brad Davis), Miglior attrice debuttante (Irene Miracle), Miglior colonna sonora (Giorgio Moroder)
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locandina del film FUGA DI MEZZANOTTE

Immagine tratta dal film FUGA DI MEZZANOTTE

Immagine tratta dal film FUGA DI MEZZANOTTE

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Immagine tratta dal film FUGA DI MEZZANOTTE

Immagine tratta dal film FUGA DI MEZZANOTTE
 

"Midnight Express" sta letteralmente ad indicare un'espressione in codice che, nel gergo dei detenuti, significa evadere di prigione. Con queste parole William Hayes intitola il libro che racconta la sua esperienza nel carcere di Sagmalcilar, a Istanbul. Nell'ottobre del 1970, Hayes, allora studente universitario, venne arrestato all'aeroporto per il possesso di hashish e, di conseguenza, fu condannato a quattro anni e mezzo di prigione.
Dopo peripezie tra carcerieri violenti e processi inconcludenti, Hayes riuscì finalmente a evadere nel 1975 e a superare il confine con la Grecia, per fare poi ritorno negli Stati Uniti.

Due anni dopo il ritorno di William Hayes in America, la Columbia affidò all'esordiente regista Alan Parker la trasposizione cinematografica della storia autobiografica di Hayes, divenuta un'eccellente sceneggiatura grazie a un ancora poco noto Oliver Stone e un meraviglioso film grazie alla grande interpretazione degli attori protagonisti.
La trasposizione sul grande schermo della dura esperienza di William Hayes fu soggetto di molti dibattiti riguardo la veridicità dei fatti riportati sulla pellicola: Hayes infatti sembra abbia smentito, come lo stesso Oliver Stone, riguardo alcuni aneddoti come l'uccisione del "kapo" Rifki e le varie violenze subite dalle guardie turche che il film riporta. Oltre a ciò, nonostante sia ambientato a Istanbul, il film fu girato quasi interamente a Malta e furono aggiunti e/o tolti aneddoti in ogni caso non fondamentali per capire e apprezzare l'opera di Parker-Stone.
Nonostante le forti critiche da parte della Turchia, offesa dalla rappresentazione dello stereotipo turco idealizzato come una "persona cattiva", questo ormai cimelio cinematografico fu un grande successo e servì a lanciare regista, sceneggiatore e attori. Il film vinse due premi Oscar, "miglior sceneggiatura non originale" a Oliver Stone e "miglior colonna sonora" a Giorgio Moroder. Di minor pregio poi i vari Golden Globe a Brad Davis & Co.

Lo scenario si apre su Istanbul e immediatamente sul fatto: "Billy" Hayes che si incolla con del nastro adesivo due chili di hashish al corpo. Successivamente c'è uno stacco netto che ci porta direttamente all'aeroporto ed infine all'arresto.
Brad Davis riesce a dare subito prova del suo grande talento, della sua incredibile naturalezza davanti alla telecamera: si cala perfettamente nella parte, lo spettatore capisce fin dai primi minuti che personaggio è il protagonista del film. Sono sequenze straordinarie quelle iniziali, calamita per chi guarda il film che quasi inconsciamente viene catapultato in una realtà che sembra quasi un sogno, un incubo.
Tutto ciò perché William Hayes è innocente, è una vittima, è un ingenuo, è un buono. La sua indole calma ma risoluta si contrappone alla malvagità endemica delle carceri in cui è rinchiuso. E' faticoso da accettare, ma non esistono alternative: il buono che si caccia quasi inconsapevolmente nei guai è, di questa pellicola ma non solo, una prerogativa affascinante quanto drammatica.
Parker coglie il significato che sta alla base del personaggio che rappresenta il protagonista della vicenda, cioè la sofferenza dello stare in gabbia. Ciò senza perdere occasione per farlo risaltare il più possibile grazie a movimenti di macchina magistrali e a una sceneggiatura da premio Oscar.
In linea generale la scenografia è "selvatica", quasi pauperistica e stereotipata a suo modo, non troppo convincente dal punto di vista della rappresentazione della realtà. Questo aspetto della pellicola può essere interpretato secondo vari punti di vista, ma ad ogni modo ciò non toglie unicità al film, anzi ne è un punto di forza.

Una volta in carcere, William fa amicizia con Jimmy, Erich e Max (interpretati da attori del calibro di John Hurt), ancore di salvezza per lui che ormai è preda di una realtà-incubo costellata di disumanità, strada impervia in cui cercare di sopravvivere.
E' vero che l'unione fa la forza, ma in questo caso si vede chiaramente quanto il protagonista sia in realtà solo: Max e gli altri sono l'unico appiglio che lo collega ancora all'umanità, alla vita, seppur in maniera effimera poiché costoro sono destinati ad intraprendere, prima o poi, strade differenti. La crudeltà e la gravità in cui i prigionieri incespicano giorno dopo giorno, trova la sua apoteosi in tre momenti fondamentali: l'impiccagione del gatto di Max da parte di Rifki, le sevizie subite da Jimmy e i vari maltrattamenti dell'impassibile e cattivissimo Hamidou.
Il sig. Hayes, il console Daniels e l'avvocato Vesil spronano il ragazzo a tenere duro, operando per lui in modo tale da cercare di ridurre la pena, ma ogni sforzo sembra vano: dopo qualche anno, la corte di Ankara emana il verdetto finale a sostituzione del primo, che condanna William Hayes all'ergastolo.
A questo punto cominciano i piani, i tentativi di fuga e, successivamente, la pazzia. A determinare quest'ultima in uno sfogo devastante è l'incastro di Max da parte di Rifki. Sarà appunto questa la goccia che fa traboccare il vaso: William, colmo di furore, da libero sfogo alla sua rabbia e uccide selvaggiamente Rifki, strappandogli infine la lingua.

Questo gesto viene interpretato come il ritorno alle origini dell'uomo: in principio noi siamo bestie ed è grazie alla civiltà ed alla società che ne consegue che siamo uomini. Quello che Parker vuole dirci con quegli agghiaccianti fotogrammi è "provate a prendete l'uomo più buono sulla faccia della terra e seviziatelo per anni, una volta scatenata la sua furia non vi troverete più davanti a un uomo ma a una belva feroce".
La ferocia di William viene domata e trasformata praticamente subito in quella che sarà poi una semi-deficienza o alienazione. Dopo l'accaduto viene infatti trasferito al manicomio criminale ed è qui che il regista gira una delle scene più significative ed importanti di tutto il film: uno dei detenuti, ritenendosi un filosofo di un certo rilievo all'interno della società turca, si avvicina a Hayes, vedendo che quest'ultimo gira in senso contrario a quello degli altri detenuti in circolo, dicendo: "Ah, la macchina difettosa non sa di essere difettosa... Lei ancora non ci crede, non è convinto di essere una macchina difettosa... Conoscere se stessi è conoscere Dio, amico...La fabbrica lo sa, per questo l'hanno messa qui, per questa ragione... Ma lo capirà, un giorno" e William risponde: "Ah, ho capito, io l'ho già capito... Ho capito che lei è una macchina difettosa ed è per questo che la fabbrica l'ha messo qui... Vuole che le dica come mai lo so?! Lo so perché io ci lavoro in quella fabbrica, le faccio io le macchine!".
Questa è la scena-emblema del rifiuto di Hayes a rassegnarsi, lui non è ancora morto, ha ancora una briciola di sanità mentale ed è deciso ad opporsi alla pazzia in cui è costretto a vivere anche quando ormai ogni sforzo sembra vano.

Il film mostra implicitamente tutta la crudezza della vicenda una volta che ci si trova con lo sguardo all'aria aperta insieme al protagonista, che volge gli occhi al cielo, a noi tenuto nascosto e schiacciato dalla macchina da presa che ci mostra invece solo la polvere. Ciò simboleggia l'incubo che il nostro "eroe" sarà costretto a portarsi dietro per tutta la vita, l'esperienza di qualcosa che mai finirà, un'entità eterna e minacciosa dalla quale non ci si sentirà mai al sicuro del tutto.

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Recensione a cura di Peter Lyman - aggiornata al 13/04/2012 16.58.00

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