Recensione jungle fever regia di Spike Lee USA 1991
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Recensione jungle fever (1991)

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locandina del film JUNGLE FEVER

Immagine tratta dal film JUNGLE FEVER

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Immagine tratta dal film JUNGLE FEVER

Immagine tratta dal film JUNGLE FEVER
 

Film del 1991, "Jungle fever" si occupa di una tematica non nuova nella cinematografia d'oltreoceano e sempre scottante ed attuale (vedasi il recente "Crash"), vale a dire il razzismo o meglio le relazioni interpersonali tra popoli di diverse etnìe costretti a coabitare loro malgrado anche a poche miglia gli uni dagli altri.
Spike Lee (che si ritaglia un ruolo di comprimario) affronta il tema contrapponendo due comunità diversamente integrate negli Stati Uniti: la comunità afroamericana e quella degli italoamericani, tra l'altro già prese in esame in un precedente film, "Fa' la cosa giusta".

Il film è strutturato in tanti piccoli quadretti nei quali si svolgono le storie e sottostorie dell'intreccio e principalmente l'azione privilegia le inquadrature in interno. Il "coro" (di qui l'impostazione quasi teatrale della vicenda) sottolinea e commenta, sempre con un linguaggio arguto e mordace, adeguato ai due gruppi etnici contrapposti.
Se in "Fa' la cosa giusta", Lee aveva dimostrato di "stare" dalla parte dei neri, gruppo al quale egli appartiene, in questa pellicola da una parte è sicuramente più neutrale, dall'altra però individua nel gruppo afroamericano un temperamento e una rivalsa maggiore rispetto al gruppo italiano più rassegnato e ripiegato sulla nostalgia di un passato e di un senso di appartenenza forse sentito solo a a parole.
I singoli non sono veramente padroni delle loro azioni perché, in nome del senso di appartenenza, si lasciano guidare dalla logica del gruppo più che da quella del loro cuore o della loro razionalità. Ecco che quindi una probabile storia d'amore tra un nero architetto di successo e una segretaria italoamericana di umile estrazione viene schiacciata dai pregiudizi e dei razzismi congeniti e innestati dagli altri. E' stato amore o voglia di esplorare territori nascosti? E' giusto per un nero "stare" con una donna bianca? Che sentimenti provano i mulatti? Che sentimenti provano i neri più scuri?

Ma Lee non segue solo la storia tra il più agiato Flipper e Angie. C'è il reverendo dottore, padre di Flipper, ex pastore battista, rigido e severo, con negli occhi e nel cuore il vecchio Sud razzista e segregazionista, c'è Gator, fratello maggiore di Flipper, abbrutito nelle strade più sordide di Harlem, con alcool e crack, droga dei poveri e (in particolare) dei neri; c'è Harlem, il "quartiere nero" con persone arrivate come l'architetto Flipper o il professore interpretato da Spike Lee, ma anche con ragazze drogate disposte a vendersi per una dose, e infine a pochi passi ci sono gli italiani. Gente modesta, prigioniera di tradizioni ormai sconosciute a chi in Italia ci vive, come Lou, il padre padrone di Paulie, interpretato da Anthony Quinn, disposto solo a ricevere, vedovo, che vive nel culto della moglie morta, silenziosa schiava. Forse proprio Paulie (un giovane e già bravo John Turturro) cerca di uscire davvero dalla spirale di autodistruzione innamorandosi di una intelligente ragazza nera, ma il regista si rifiuta di seguire la sua storia, lasciandolo sulla soglia.

Come accadrà più di dieci anni dopo in "Crash", anche Lee sostiene una tesi dura: il melting pot, il crogiolo di popoli che ha formato gli Stati Uniti, in realtà non esiste. Le diverse etnìe non sono disposte ad incontrarsi, tutt'al più a scontrarsi perché ognuno si ritaglia il suo mondo e non ha intenzione di rapportarsi con il diverso, rimanendo solo nella sua personale giungla.

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Recensione a cura di peucezia - aggiornata al 21/04/2006

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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