Recensione nymph regia di Pen-Ek Ratanaruang Thailandia, Malesia 2009
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Recensione nymph (2009)

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locandina del film NYMPH

Immagine tratta dal film NYMPH

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Immagine tratta dal film NYMPH
 

Nop e May sono una coppia sposata, il cui matrimonio si trascina senza grandi entusiasmi: lui è sempre più abulico e chiuso in se stesso, mentre May intreccia una relazione extraconiugale con Korn.
Un giorno la coppia decide di trascorrere alcuni giorni accampandosi nella giungla, per permettere a Nop, fotografo professionista, di scattare alcune foto naturalistiche. Una notte Nop scompare, e a May non resta che avvertire la polizia e ritornare a Bangkok.
Dopo alcuni giorni l'uomo torna a casa comportandosi in modo strano, ma forse è solo il senso di colpa di May e Nop non si è mai mosso da quella foresta.

Un piano sequenza di otto minuti definisce le coordinate dell'ultimo Pen-ek Ratanaruang, un piano sequenza ingannevole che nasconde al suo interno un'ellissi temporale: in una foresta due uomini stuprano una donna e dopo alcuni, ipnotici minuti di contorsioni della steadycam, i medesimi aggressori vengono mostrati, ormai cadaveri, mentre galleggiano in un fiume. Questo prologo segna l'inizio di "Nymph", l'opera forse più ermetica, irrisolta e indecifrabile del regista thailandese.
Un'apparente incursione nel fantastico puro, che nasconde in filigrana una melanconica riflessione sui rapporti interpersonali e sull'infedeltà, analoga a quella del precedente "Ploy". La cifra stilistica e' la stessa: un felpato onirismo in cui sogno e realtà si fondono l'uno dentro l'altra, e in cui il linguaggio viene piegato a minimi, impercettibili spostamenti di senso.

Lo spazio naturale, pervaso di senso panico, e lo spazio urbano sono i due poli opposti tra cui oscillano i protagonisti di "Nymph". Da un lato un universo disarmonico, rigidamente strutturato, alienato, dove i rapporti tra le persone seguono tappe obbligate (il matrimonio, il tradimento), dall'altro lo spazio sintonico, libero, istintuale della natura, in cui forse è possibile sanare una frattura, ricostruire un equilibrio tra l'uomo e il cosmo ormai definitivamente incrinato.
La Ninfa del titolo, che sia un'evoluzione della figura femminile che vediamo nel prologo, una ninfa dei boschi o una driade, è il simbolo catalizzatore di questa dicotomia insanabile.
E' d'obbligo ricorrere alla classicità, ricordando che un frammento di Eschilo ci insegna che le ninfe "offrono il dono della vita", mentre Plutarco usa una parola specifica per definire chi è posseduto dalle ninfe (nymphóleptos, traducibile con ninfolessia), possessione non da intendersi nella moderna accezione cattolico-occultistica, ma come metamorfosi, ebrezza divina che porta felicità e conoscenza.
Nop ricompone l'armonia facendo l'amore con la ninfa fra le radici di un albero, in una scena curiosamente simile a quella dell' "Antichrist" di Lars Von Trier, anche se al posto dell'allucinato nitore della pittura fiamminga omaggiata dal regista danese abbiamo un misticismo di stampo animista che rammenta l'Apichatpong Weerasethakul di "Tropical Malady".

Nop, nel suo immaginario ritorno a casa, è infatti radicalmente mutato.
Rifiuta di mangiare e consuma esclusivamente grandi quantità di acqua, assimilato da May al grande albero che domina la foresta, contro cui sfogherà tutta la propria aggressività e frustrazione.
Evitando prevedibili derive in odore di manicheismo (vedi "L'albero del male" di Friedkin), Ratanaruang sembra optare per una riconciliazione, come appare evidente dalle ultime parole proferite da Nop, prima di scomparire per sempre nella giungla.

Nopachai Jayanama è il classico protagonista passivo alla Ratanaruang e, pur mancando del carisma di Tadanobu Asano in "Last Life in the Universe" e "Invisible Waves", se la cava dignitosamente, così come la May di Wanida Termthanaporn, anche se i veri protagonisti del film sono la languida e sognante regia di Ratanaruang, la fotografia di Charnkit Chamnivkaipong e il suggestivo sound design di Koichi Shimizu, che dà voce e respiro alla foresta.
La versione definitiva approvata dal regista è più breve di circa 15 minuti rispetto a quella presentata a Cannes, e il film è dedicato a Wouter Barendrecht, produttore della benemerita "Fortissimo Films" recentemente scomparso.

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Recensione a cura di Nicola Picchi - aggiornata al 12/01/2010

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