Recensione paranoid park regia di Gus Van Sant Francia, USA 2007
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Recensione paranoid park (2007)

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locandina del film PARANOID PARK

Immagine tratta dal film PARANOID PARK

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Immagine tratta dal film PARANOID PARK

Immagine tratta dal film PARANOID PARK

Immagine tratta dal film PARANOID PARK
 

"Gus Van Sant è uno dei pochi registi che riesce a portare lo spettatore oltre il racconto visivo"

"Per Gus Van Sant il modo di raccontare è importante quanto la storia, e forse anche di più"

"I film di Van Sant sono sempre imprevedibili e controcorrente, ma a tratti anche esagerati nella ricerca stilistica, a rischio di autocompiacimento. In questo lavoro, invece, l'autore sfrutta il suo talento... Per proporre un film in cui l'originalità serve agli scopi narrativi"

Esule dal trionfo del festival di Cannes, "Paranoid park" debutta nelle sale in una stagione cinematografica già conclusa, già ampiamente traboccante di melassa natalizia, cinepanettoni e (dulcis in fundo) spettatori svogliati.
Ultimo (?) film di una ipotetica "trilogia del silenzio" inaugurata con "Elephant" (palma d'oro a Cannes) e seguita da "Last days", il film è indubbiamente la summa dell'arte del regista, quella che gli ha procurato lodi sperticate da parte della critica e anche parecchi detrattori.
Il suo cinema che, a detta di esperti è uno dei pochi ad adottare un linguaggio cinematografico vero e proprio, non è certamente consigliato a tutti, ma a quanti trovano ancora la forza di credere che il cinema possa essere anche un vettore di codici espressivi meno tradizionalisti e più rivoluzionari del solito.

"Paranoid park" è la degna prosecuzione di "Elephant", sviluppandosi su un'insieme di "allegorie" narrative che fanno perno a una storia. La storia è quella, ambientata a Portland (città natale del regista) del giovane Alex (molto bravo l'attore esordiente, Gabe Melvins), un adolescente che, come molti altri, coltiva la passione per lo skateboard, e si lascia condizionare da un amico coetaneo ad andare al cosiddetto "Paranoid park", ribattezzato così dai ragazzi del luogo, una sorta di "palestra di vita" dove i frequentatori del posto hanno modo di esibire la propria sfrenata vitalità lontano dal mondo degli adulti.
Un luogo dove si trovano diverse tipologie di persone, unite dalla stessa passione: ragazzini di strada o veri e propri homeless, ragazzi borghesi di buona famiglia, o di razze ed estrazione sociale diversa.
Una sera, Alex si lascia convincere a fare una "bravata" con un gruppo di ragazzi più grandi di lui (la famosa iniziazione nel mondo adulto, non molto diversa delle corse in auto nel cinema giovanile degli anni Cinquanta) ed è responsabile della morte di un uomo, orribilmente spezzato in due dalle ruote di un treno.
Indifferente a tutto e a tutti (litiga con la sua ragazza dopo averci fatto l'amore), rimosso da una situazione familiare di disagio (i genitori stanno divorziando) e poco propenso a confessare agli altri i propri disagi, Alex vive una situazione di annientamento, dove per la prima volta deve fare i conti con la propria coscienza, con l'ammissione della colpa e la paura delle conseguenze.

"Paranoid park" non è necessariamente un film con cui trascorrere 85' in allegria, e risulterà indubbiamente ostico a molti.
Van Sant racconta ancora una volta una storia di adolescenti allo sbando, con uno sguardo mai morboso sulla storia ma che tradisce probabilmente un'insolito ("Pasoliniano, verrebbe da dire") interesse verso i personaggi ai quali sembra affezionato, se non addirittura attratto. La mdp del resto è la stessa che suggerisce l'interesse di Alex per il ragazzo più "grande", quello che lo porta, insieme ad altri, all'abisso temporale di una notte fatale.
Il film è volutamente frammentato e spezzato come quel corpo inerme, quello che - in una terribile sequenza - sollecita i ragazzi a ridere delle immagini immortalate nella foto, che è il sentimento più ripugnante, cinico e al tempo stesso diffuso di chi esorcizza in questo modo la propria paura (o l'orrore della visione).
Qualcuno ha voluto vederci una sorta di scissione operata tra l'Alex apatico e monoespressivo del "prima" e la dolorosa sopravvivenza del "dopo": effettivamente, sia le foto mostrate dall'agente della polizia ai ragazzi della scuola sia la ricostruzione diretta del dramma che coinvolge Alex hanno il grande pregio di non essere mai morbose e compiaciute, ma girate con un certo rigore atto ad operare proprio in Alex due stati allucinati della propria coscienza: il senso di colpa, di impronta Dostoevskijana, e l'apparente rimozione passiva dell'accaduto (torna in mente "Lo straniero" di Camus).

"Paranoid park" è un film determinante, proprio per aver osato restituire al linguaggio cinematografico la sua validità sperimentale, e non a caso il dualismo tra immagini e musica è tra i più azzeccati della carriera di Van Sant: le musiche vanno da Beethoven a Nino Rota ("Amarcord" e "Giulietta degli spiriti") fino a epilogarsi quasi nel funesto presagio di un Elliott Smith che ha lasciato, come tanti altri epigoni Santiani (v. il Kurt Kobain di "Last days") e in silenzio, questo mondo.
Inframmezzato da magnifiche immagini di skateboarders, in un trapasso visivo di allucinata bellezza, grazie anche alla fotografia di Christopher Doyle (ex direttore della fotografia per Wong Kar-wai, v. "Angeli caduti" e "In the mood for love") il film ha il solo limite di essere fin troppo manicheo e approfondito, di non lasciare pertanto mai lo spettatore strumento "passivo" della storia o delle immagini (fatto che, paradossalmente, è anche il suo maggior pregio).
Rispetto ad "Elephant", ci sono indubbiamente dei miglioramenti: lo sguardo ora voyeurista ora sorprendentemente moralista di quel film ha ora ceduto a una visione intuitiva, introspettiva e pianificata (ma pur sempre, attraverso un montaggio analitico, rallentata e sospesa) della storia.
Gli eventi in "Paranoid park" vengono ricostruiti a poco a poco, fino a divenire l'ombra oscura dell'alienazione di Alex e del suo rapporto inedito con il bene e il male, il bianco e il nero, la luce e l'oscurità.

La storia è tratta da un romanzo di Nelson Blake, ma tutto ciò è forse irrilevante: a Van sant interessa privilegiare l'insieme delle azioni che compongono le conseguenze, e la reazione successiva agli eventi.

Non sarebbe sbagliato parlare di "esorcismo morale", quando Alex brucia la lettera destinata a un'amico nel quale confessa le sue colpe assistiamo già a una sorta di oscuramento improvviso (o radicalmente necessario) del proprio coraggio.

Ci sono invero sequenze che strappano il cuore, letteralmente: la lite verbale oscurata da Van sant con la ragazza di Alex (cfr. una nemmeno vaga reminescenza con Bresson), e la muta impotenza del ragazzo davanti alla disponibilità del padre. Su tutte, comunque, memorabile la sequenza di una doccia ablutoria e disperata, o la precedente fuga nella pioggia battente, farebbero pensare a un regista ancora una volta ossessionato da Psyco (di cui è autore di un correttissimo e discusso plagio), o magari proprio dalle intenzioni di Hitchcock quando girava quel film (la storia come accessorio al racconto visivo, e in entrambi i casi prevale la coscienza).

La scena, emblematica, di Alex che osserva con disagio l'ispettore della polizia in una sorta di inconfessabile repulsione, è emblematica: da quel momento, sappiamo che nulla e mai più potrà essere rivelato(re) oltre lo sguardo.

Non come un Larry Clarke, che cattura i disagi giovanili lasciandoli, diciamolo, al puro voyeurismo dello spettatore: "Paranoid park" è stato comunque accolto molto bene dalla stampa, che ha osato fare paragoni ingombranti con il neorealismo e il Rossellini di "Germania anno zero", francamente fuori contesto ma non del tutto lontano dallo stile essenziale e rigoroso di Van Sant.

Girato in 8 mm. e super-8, con una "ripresa" che sembra identificare il realismo con l'arte del documentario analogico, è un film che dà disagio, e lo compensa con una forte irritazione o, tutt'al più, con un certo sgomento entusiasmo.
Dipende tutto dal modo in cui aderiamo al linguaggio cinematografico più oltranzista, visto che anche il popular De Palma ne ha innegabilmente percorso le tracce (v. "Redacted").

Probabilmente un capolavoro, per quanto astruso e decodificato rispetto alle aspettative della massa.

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Recensione a cura di kowalsky - aggiornata al 17/12/2007

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