Una suora del XVII secolo in Italia soffre di inquietanti visioni religiose ed erotiche. È assistita da una compagna e la relazione tra le due donne si trasforma in una romantica storia d'amore.
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Stupendo. Funziona tutto in questo film di Verhoeven. Il background storico è rappresentato "divinamente" e l'ottima prova attoriale rende la storia ancora più appassionante. Esteticamente superbo: regia e ambientazione svolgono un ruolo fondamentale a tal riguardo. Nel mezzo, una miriade di temi che si possono cogliere e che si muovono tra il sacro e il blasfemo. Gran film.
Incredibile come Verhoeven, alla sua età e con tutto il passato che lo riguarda, non sia mai venuto meno all'etica del suo cinema senza mai condonare o accettare compromessi di sorta (persino quelli di Hollywood). Non si rimane impassibili quando un cineasta come Verhoenen mischia: fede, blasfemia, castità, perversione, attualità, antichità, sante, *******, violenza e candore, persino in un film che parla essenzialmente di suore. Non mi stupisce persino che il suo braccio destro alla scrittura, Gerard Soeteman, si sia allontanato (togliendo pure il suo nome dai titoli di coda) reputando la pellicola troppo declinata al lato sessuale, ma neanche che la scrittrice del libro da cui è tratto il film (Judith C. Brown autrice di "Atti impuri - Vita di una monaca lesbica nell'Italia del Rinascimento") abbia testualmente definito: - Paul Verhoeven e David Birke hanno scritto un copione fantasioso e affascinante che esplora l'intersezione tra religione, sessualità e ambizione umana in un'epoca di peste e fede. - parole, che attestano in primis la potenza evocativa del film. Valore aggiunto poi le location italiane di Bevagna, Montepulciano e Val d'Orcia a cui vanno annesse quelle francesi nelle abbazie di Silvacane e Le Thoronet, tutte sfruttate al meglio tra interni ed esterni ad opera della fotografia di Jeanne Lapoirie e delle scenografie di Katia Wyszkop. Il contesto storico non viene mai meno sin dai primi minuti, riportando la dura vita del 1600 tra: crisi dell'imminente ricambio economico, lotte intestine di natura sia civile che religiosa (le diverse eresie dei catari, dolciniani, flagellanti e chi ne ha più ne metta), il ritorno dell'onnipresente peste e infine, parte più importante, la centralità dell'aspetto religioso nella vita della gente e tutto questo viene ricreato in modo certosino (ricordando quasi "Il nome della rosa") qui in Italia. Ma tra tutto quanto è il cast che mi ha colpito: Virginie Efira incarna tutti i valori delle attrici che hanno impersonato i personaggi femminili di Verhoeven: biondismo, bellezza, ambiguità della doppia natura umana e così facendo costruisce nella sua Benedetta Carlini (realmente esistita) una commistione tra i personaggi di Caterina da Siena e Giovanna d'Arco nel quale vengono immesse tutte le peculiarità tipiche del regista come la sottile linea tra realtà e finzione della Catherine Tramell di Sharon Stone in "Basic Instinct", ma sarebbe anche un torto non citare Daphné Patakia (nel vedersi sembra quasi una fusione tra Mia Goth e Béatrice Dalle) che fa da tentatrice e contraltare alla santità (?) della protagonista creando una versione perversa della coppia in "Portrait de la jeune fille en feu" di Céline Sciamma, infine la solita Charlotte Rampling che spicca con la sua arriverà badessa sempre pronta nel condannare uomini che mercanteggiano come giudei le necessità economiche della Santa Romana Chiesa. La pellicola è un susseguirsi tra giochi di specchi, religione, umanità, martirio e non manca anche la violenza medioevale (cosa non nuova a Verhoeven, basta solo citare "Flesh+Blood") che scoppia nel finale della rivolta popolana in cui, come direbbe Barbero, le persone fanno carne delle proprie vittime presi dall'isteria di massa, giusta menzione va fatta anche alla colonna sonora di Anne Dudley spazia dalla sacralità dei cori religiosi all'evocatività di composizioni efficaci. In pratica questo film è l'ennesima conferma di come Paul Verhoeven non venga mai meno al suo cinema, non cedendo alle mere scelte/compromessi politicamente corretti di tanti giovani registi che sono venuti dopo la sua ascesa nel cinema europeo e americano.
La storia di Benedetta Carlini è una storia che vale la pena conoscere e possiede tutte le carte per farci un film. Le visioni mistiche vengono ben gestite al fine di darci un'idea del personaggio e a renderci conto del contesto storico. Veroheven sa dove spingersi per farsi criticare. Nel contempo sa incuriosire lo spettatore, anche carnalmente, e lo fa con un plot assai ritmato che poco lascia spazio al non detto. Senza mail superare il limite e sfruttando al massimo il provocatorio, il film di Verhoeven riesce ad equilibrarsi e a funzionare egregiamente.
Sesso, denaro e potere lì dove s'accede previo triplice voto di castità, povertà e obbedienza. Il film ricorda com'all'epoca la scelta religiosa o consacrata fosse compiuta di rado per vocazione e molto più spesso per necessità, inoltre la storia della vita monastica, claustral'e sacerdotale è stracolma di vicend'erotiche d'ogni "gender". Ma Verhoeven è interessato a questo? Se è "allergico a qualsiasi forma di manicheismo, [posizionandosi] nelle zone d'ombra del desiderio e della fede" (Marzia Gandolfi), avrebbe fatto meglio a selezionare un racconto diverso da quello di Benedetta Carlini, che non è giunto a noi con documenti che avvalorino i suoi dubbi (esiste del manicheismo pure nello scetticismo a oltranza), dalla veracità vocazionale alle stimmate, dai miracoli alle visioni (distantissime dalla visionarietà di Ken Russell): è lui come regista e non i resoconti a noi pervenuti sulla suora a insinuare menzogne, manipolazioni, ambiguità, inganni, truffe, collassando mistica e mistificazione con inserti presi a casaccio da Giovanna d'Arco. "Scritto con David Birke, dopo che l'abituale Gerard Soeteman ha mollato per divergenze creative" (Federico Pontiggia). Da ateo materialista ad ateo materialista: il fondamentalismo fa schifo in qualsiasi caso.
Verhoeven si muove nel cinema che conosce meglio, quello erotico-provocatorio e lo fa ragionando in modo iconoclasta ed eretico sul corpo e il sesso come strumenti del potere: fin dall'incontro con Bartolomea il contatto fisico diventa veicolo di "trascendenza spirituale" (lo vediamo quando Benedetta ha una visione mentre viene toccata nella scena del canto in chiesa) e da quel momento Benedetta scopre che il corpo, le sue possibilità inesplorate, è centro di un potere che può travalicare l'ambito chiuso di un microcosmo conventuale per divenire modo universale di parlare al popolo (e di parlare con Cristo). Benedetta diventa così idolo populistico, figura miracolistica, simbolo popolare (quanti dittatori populistici hanno costruito gran parte della loro fortuna popolare sulle movenze del corpo e il suo utilizzo politico?) E se è vero che Verhoeven forse si muove fin troppo nella sua comfort zone con una nuova indagine della sessualità che non desta più lo scandalo di anni passati, è altrettanto vero che l'elemento più interessante del film sta proprio in questa indagine sulle possibilità del corporeo e su come il corpo è "libro" su cui leggere le manifestazioni del potere: quelle che vanno e vengono, del potere proprio e altrui (da quello martoriato di una giovane donna continuamente stuprata da padre e fratelli, a quello di Benedetta in grado di assurgere a teatina dei miracoli, da quello che segnala la decadenza del potere quando la peste arriva a distruggere le figure apicali, dalla anziana badessa al cardinale).
Andrebbe poi fatta una riflessione sul perché in un paese non marginale del mercato cinematografico mondiale, in un paese di 60 milioni di abitanti e dove per di più il film è ambientao e in gran parte girato, ci siano voluti due anni (no dico, due anni...) per vederlo in sala. Mistero della fede...
Verhoeven è riuscito a rendere questa trasposizione della storia di Benedetta Carlini, nei limiti del possibile, assolutamente perfetta. Scenografie, fotografia, interpreti, tutto perfettamente curato ed equilibrato. Perchè non un voto più alto? Perchè "ci ho visto" troppo "I Diavoli" di Russell (curiosa coincidenza: Benedetta nacque nel 1590, Grandier nel 1591).
Ora, non so se Russell, all'epoca, si fosse ispirato a Benedetta per il personaggio della superiora delle Orsoline ma le scene delle allucinazioni/visioni si rimandano molto in una curiosa simmetria tra un film e l'altro.
Tra l'altro il personaggio "scomodo" (altra simmetria con "I diavoli", dove il personaggio scomodo era Grandier), fuori dagli schemi e singolare, è ben gestito dalla regia potente e talvolta cruda e diretta tipica di Verhoeven. La storia fila senza perdere un colpo, appassiona ed incuriosisce, le oltre 2 ore non pesano affatto.
Tutto ciò che negli anni abbiamo imparato ad amare di Paul Verhoeven è condensato in queste due ore di cinema orgogliosamente spudorato, velenoso, grezzo e carnale. Ancora una volta l'autore olandese insinua tra le pieghe narrative la sua acutezza, il suo disincanto, la sua capacità di bilanciare alto e basso, arte e kitsch estremo. Un'opera forse troppo disomogenea (eccessivamente bruschi alcuni raccordi) per poter risultare totalmente riuscita come quel gioiello che fu Elle, ma anche senza urlare al miracolo non si può dire che non sia un film coraggioso. E per questo, la promozione è categorica.
Quella di Paul Verhoeven è la solita storia del regista europeo che dopo essersi distinto in patria per buoni film, subito risponde al richiamo delle chimere Hollywoodiane e corre in America dove realizza qualche pellicola commerciale e dimenticabile (tranne il cult Robocop). Per fortuna da qualche anno l'olandese è tornato nel vecchio continente a dirigere film più seri ed impegnati. Avendo letto la trama non vedevo l'ora di visionare questo "Benedetta" (e volevo commentarlo per primo ma The Gaunt mi ha battuto...che rabbia!) e l'attesa non è stata delusa: basato su una storia vera, già bella intrigante e stimolante di suo, si parte subito con molto poco velate critiche alla chiesa del periodo che predicava la povertà ma riceveva fior di quattrini per accogliere le novizie e soprattutto la retrograda visione che la fede e l'amore per Gesù dovevano per forza essere dolore, mortificazione e sofferenza anziché gioia. Senza dilungarsi per niente sul concetto di suore costrette al convento senza alcuna vocazione, si arriva dritti al morboso rapporto tra Benedetta e Bartolomea, così profondo dal non capire più chi sia la vera tentatrice e la vittima. Con scene di violenza e di sesso estremamente realistiche ed esplicite (caratteristica tipica di Verhoeven) si sviluppa la storia in un costante clima di misticismo e peccato, di divinità e di materialismo, in un turbinio di figure ambigue. Benedetta era una santa od una millantatrice? Arriviamo al punto che non vogliamo più saperlo piuttosto abbandonarci a seguire la storia delle protagoniste che pare vogliano farci capire quanto possa essere bello il peccato...come se amare fosse peccato; d'altronde religione e sesso hanno sempre costo un connubio molto interessante. Uno splendido film blasfemo quanto basta che riunisce il diavolo e l'acqua santa, il sacro ed il profano e che mi permette un'uscita poco signorile: le suore lesbiche hanno sempre funzionato...e Verhoeven lo ha capito decisamente bene! Straordinarie le interpreti e le scenografie.
Chi è Benedetta Carlini? Una perfetta mitomane o una santa imperfetta? Verhoeven si muove sul filo della perfetta, quella sì, ambiguità nell'osservare questa suora nei suoi deliri mistici fin dalla sua infanzia. Che sia mistificazione o miracoli, l'atteggiamente di Benedetta è dettato da una sincerità di fondo che lascia stupiti. Donna illuminata al pari del Grandier dei Diavoli di Ken Russell, uomo religioso anch'esso ma dalla religiosità particolare, fuori dagli schemi. Nel mirino del regista olandese ci finisce anche la Chiesa come istituzione, pronta a determinare cosa sia miracolo o meno, oppure uomini o donne in odore di santità a seconda degli umori e delle convenienze. Il classico mercinomio di santa madre chiesa o presunta tale. Ottimo film di un regista a cui è adattibile il vecchio detto. Come il vino, invecchiando migliora o almeno in questo caso, non perde colpi.